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    Pianto nuovo

    Ti ho rapita con le onde.
    L’azzurro schiuma in capillari e in stelle
    pulsano le fiaccole sommerse dei laghi
    nelle palpebre. Ho fra le ciglia
    la desolata notte e vi grida un cielo
    nudo di amore la caligine di unghie. Sei
    velo di bruma sugli alluci più sacri della scrittura
    danzante. Sei roboante
    tuffo di cometa nel gorgo alieno
    della sporcizia umana, un comico
    nulla che raccolgo dalle tragedie in fiore. Bocci
    timidi divaricano le gambe alla prima
    stagione di rugiade.

    Senti? Una vibrazione
    scuote carne e terra, buio e silenzio. Attraversa
    pori ariosi del tempo penetrando
    e conficcando rovi nel sangue arcano
    che batte sentieri. Ti ho voluta
    con le virgole nere
    del sole ch’emani. Alla finestra
    punti in sospensione di luce accecano
    l’ispirazione fulminante che pittura microbiche
    varietà dell’azzurro incarnato. La sinestesia
    frattura nelle ossa il legame, intrecciando
    fili erbosi del corpo all’asperità dei varchi
    d’anima latitante.

    Senti, ora? Non sono più in me. Venti,
    oceani e continenti non bastano alla mia fame.
    Muoiono e rinascono salmodiando
    la stessissima canzone incertamente
    eclissata. Sudata e tumefatta luna
    irretisce un’ode consumata
    senza poesia, luminosa e ottenebrata.

    Riposa nel più dolce sonno, immagine. Sarò tiepida
    domani, nel maremoto di finzione smascherata
    scalderà la pelle ferita di universi
    il nucleo originale di lacrime in preghiera.


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    Dichiarazione di guerra

    Uccidiamo la luna con ellisse
    che deformi anche sfere rivoltose
    — frullando il canto. Ho pettinato rose
    le cui lingue fiammanti crocifisse

    intagliavano con spine le ascisse
    di piani rivoluzionari. Prose
    ristrutturano l’anarchia di cose
    impilandosi su cataste fisse

    del falegname più umile che visse
    in ogni epoca. L’asse definisce
    orbite sgangherate in cui ruotare

    forme, sostanze e nudità d’Ulisse
    che bramò le colonne in cui fallisce
    l’eterno udito a vuoto poi gridare.


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    Lezione di neolingua

    Il diritto “acquisito” rode. Brilla
    di marcescenza. Cambia in privilegio,
    istanza irregolare e sortilegio
    per cui la narrazione interna strilla

    disuguaglianza di legge e non squilla
    più l’aria naturale — florilegio
    di anacronismo nobiliare in spregio
    al contratto sociale. Gli si spilla

    poi essenza vitale — ma un diritto
    è sangue di martirio che arde in nere
    civiltà degli antichi lumi spenti.

    Sul contenuto non ho ancora scritto
    parole chiare — mi serve un bicchiere
    che rifletta la luna, in caso tenti

    d’indicare altrimenti
    obesa, agonizzante umanità
    che sfugge in rantoli di libertà.


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    Maria Luisa Spaziani #2

    Poesia scelta, dalla raccolta “Giovanna d’Arco”.

    Epilogo

    Tutta la notte la sognai gridando,
    piangendo dentro il più angoscioso sogno.
    Era lei, Caterina, l’infelice
    “regina delle Streghe”? La rividi,
    macilenta bambina che danzava
    con gli occhi fissi a un cupo sortilegio,
    presso il bosco di casa, sotto i rami
    pagani della “quercia delle fate”.

    Lei, quella buia figlia di regina,
    si era arrogata un titolo fatale.
    Dov’era andata? Quali conciliaboli
    l’avevano irretita e poi perduta?
    «Io mi assumo la croce» avevo detto
    la notte degli addii. Non sapevo
    che la sorte tramasse di assegnarle
    il tormento a me sola destinato.

    (altro…)

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    Pier Paolo Pasolini #2

    Era l’inizio del giorno, pochi istanti fa,
    una luce vecchia, morente, e ora
    ecco l’azzurro di un golfo del Meridione,
    nel gelo della tramontana, un giorno
    che bastava soltanto scoprire, era su noi.
    Splendidamente remoto da ogni nostra passione.
    Chi fra un po’ siederà sul banco degli imputati
    guarda quell’azzurro, e ha un desiderio di libertà
    meravigliosa – come quando il pensiero di un giorno
    nuovo nato su delicate rive di fiumi nordici,
    era l’idea di un mondo rapito in celeste odio
    di guerre antiche, e i popoli di fiori di campo,
    oltre i viali di periferia dei paesi veneti,
    divenivano, nel gelo del giorno che si faceva tepore,
    popoli nudi sotto le loriche, al sole di Omero.
    Avete voluto avere un poeta in questo banco
    lustrato dai calzoni di tanti poveri cristi?
    Va bene, godetevelo. La Giustizia
    diventa cieca voce di rondini, agli scioperi
    della Poesia. E non perché, la Poesia, abbia diritto
    di delirare su un po’ di azzurro, su un misero sublime
    giorno che nasce con la malinconia della morte.
    Ma perché la Poesia è Giustizia. Giustizia che cresce
    in libertà, nei soli dell’anima, dove si compiono
    in pace le nascite dei giorni, le origini e le fini
    delle religioni, e gli atti di cultura
    sono anche atti di barbarie,
    e chi giudica è sempre innocente.