Quel tempo in cui non puoi fare niente.

C’è un tempo, che non serve a nulla.
Non è abbastanza per far qualcosa e non è così impalpabile come l’ultimo istante che lo segue. E’ una vertigine in fondo ad un burrone, quando alzi lo sguardo e vedi intorno solo pareti lisce a cui non puoi aggrapparti. Puoi solo aspettare, e guardare.
Passano le ultime persone in strada prima che inizino i fuochi d’artificio del Capodanno, rileggi le domande d’esame a cui non cambierai risposta, ascolti gli ultimi respiri prima della morte. Stringi il bicchiere di spumante, il mouse, la sua mano. Poi aspetti.

La timidezza delle chiome

All’improvviso, un colpo secco, tra lo stomaco e i polmoni.
L’aria entra ed esce dalla bocca a ondate, il mio corpo sussulta. Faccio qualche passo mentre cerco di controllare il respiro e mi dico no, stavolta non mi sfuggi. La afferro per le spalle prima che si nasconda di nuovo, tornando a confondersi con il resto delle persone, delle cose, del mondo. La faccio voltare con uno strattone e la vedo finalmente in faccia. La pelle è grigia, lo sguardo è afflitto. Per il resto, è identica a me.
Ricordi? Te lo ricordi di quando non potevamo essere felici? C’era buio e silenzio e visi tristi e non si poteva ridere, non si poteva giocare, nessuno che dissimulava o cambiava argomento, tutti incastrati in quella tristezza densa che impediva di parlare, muoversi, vivere. Io me lo ricordo! E’ così, ogni volta, ogni dannata volta, non c’è scampo, lo capisci? La osservo mentre parla e sorrido. Le sue parole hanno senso, sì, ma per la prima volta le ascolto al di fuori di me e mi rendo conto che questo fa tutta la differenza. La prendo per le mani. Quel dolore lo percepisco, ma non mi brucia dentro. Alzo lo sguardo e sulle nostre teste appare un mosaico di chiome verdissime, di alberi dai tronchi snelli, alti. Il vento le fa dondolare dolcemente. Guarda, le dico, questi alberi crescono fitti, le chiome sono rigogliose, ma i rami non si intrecciano. Ognuno ha il suo spazio, oscillano insieme senza toccarsi. Dirò a tutti che mi dispiace, ma non tornerò indietro. Ci sono voluti anni per prendere le misure, trovare la dimensione giusta, la luce, le risorse necessarie, fare amicizia con il vento e con le tempeste, imparare a non aggrapparmi se non sto cadendo. La chiamano timidezza delle chiome, ma non sono molto d’accordo. A me sembra solo l’unico modo giusto di vivere. Lei intanto approfitta di un tiro di sigaretta per svanire e un attimo dopo svaniscono anche gli alberi e le chiome giganti.

Bella presenza.

Banco della frutta del supermercato.
Dopo aver dato un’occhiata in giro decido che voglio acquistare un melone bianco. Ce ne sono solo di interi. Una coppia di settantenni è intenta a sceglierne uno. Mi avvicino. Li osservano, li tastano, li soppesano. Devono essere esperti, mi dico, e senza pensarci due volte decido di affidarmi alla loro sapienza, perché non ho la più pallida idea di come si sceglie un melone. Di solito li compro già tagliati. Mentre posano nel carrello il loro melone, mi lancio e chiedo.
La richiesta di aiuto si rivela più complessa del previsto.
La signora mi guarda, le labbra sono ferme in una smorfia strana come se volesse dire qualcosa ma le parole le si sono bloccate in bocca. Suo marito sposta il peso da una gamba all’altra e la guarda con un’espressione di lieve panico.
Cerco di interrompere il silenzio imbarazzante cercando di suggerire la risposta che potevo dare anch’io a me stessa un minuto prima. Forse dal colore? Quei due lì sembrano pallidi.
La signora si sblocca e dal profondo dell’anima tira fuori l’unica spiegazione che crede sia in grado di darmi. Il marito la osserva curioso.
Si, si, il colore, anche, ma deve avere una bella presenza. E poi… come capita, possiamo vedere soltanto com’è fuori, non possiamo sapere com’è dentro.
Nella mia testa immagino uno di quegli annunci di lavoro sui giornali che terminano con … è richiesta oltretutto una bella presenza.
Il marito si affretta a cercarmi un melone di bella presenza. Ne individua uno in fondo alla cassetta, di un giallo carico e bello rotondo. In effetti è carino. Li ringrazio annuendo e ci auguriamo a vicenda che i nostri meloni siano anche buoni, tanto quanto sono belli.
Mentre mi allontano penso che dovrò tenere a mente il consiglio della signora anche al prossimo primo appuntamento.

La voce

L’altra mattina guardavo la strada su cui affaccia il mio balcone più grande e provavo quel solito timore familiare di uscire e rischiare che un dettaglio, una cosa fuori posto mi mettesse di cattivo umore. Quante volte camminando ho scansato le auree degli altri passanti per paura che mi intristissero, come se al contatto con la mia potessero trasmettermi ansie e negatività. In ogni caso, mi sono detta, devo andare dal tabaccaio quindi bando alle sensazioni, andiamo. Chissà poi, forse quella breve preparazione mentale ha suggerito qualcosa di inspiegabile al mio inconscio, ma la passeggiata è andata in tutt’altro modo. Sarà che le ferie hanno spezzato i soliti pensieri, che l’aria non era tanto calda, ma sentivo le gambe leggere e il mio passo diventava sempre più spedito e sentivo che nulla, né dentro di me né fuori di me, poteva turbarmi. Le vetrine dei negozi mi confermavano che la mia espressione era seria, eppure avevo la sensazione di star sorridendo. Ma quel sorriso… No, non era il mio. Eppure. Ero sola, non poteva che essere mio. Non capivo. Mi guardavo intorno. Ogni cosa era bella. Ogni persona era un’isola di uno strano arcipelago in movimento. Lo vedi? Ognuno è il risultato di ciò che crede. Guarda quella signora. La camicia extralarge gialla, i leggings, la coda di cavallo sfatta. E quel signore anziano? Le gambe pallide e magre, i pantaloncini, la camicia azzurra e le braccia un po’ più abbronzate. La tipa con il passeggino doppio, la bambina che le saltella affianco. Sono tutti diversi, sono tutti universi distanti eppure le nostre realtà in questo momento coesistono e si intersecano. Si hai ragione, rispondo, ma nonostante ciò non le sento. Le vedo, si, ma oggi non sono un buco nero che attrae, piuttosto un corpo celeste che irradia. Guarda, guarda come tengo alta la testa, non li sto schivando, non mi sto nascondendo, la mia energia la posso quasi osservare, mi avvolge e mi guida. Ecco, quel signore lì si è girato, pensi che se ne sia accorto che oggi emetto raggi di luce? Non puoi saperlo. Forse somigli a qualcuno o gli piace il color sabbia del tuo vestito. Non lo puoi sapere. Ricorda, dipende da loro così come dipende da te. Ognuno vede della realtà solo ciò in cui crede. Una persona che si lamenta in continuazione vedrò solo problemi, disservizi, sguardi storti. Un religioso vedrò solo peccatori, un genitore farà caso ai pericoli, un ingegnere alle crepe nei muri. La domanda successiva affiorò spontanea. Io in cosa credo? Quello che penso del matrimonio, dei figli, degli uomini, del futuro è davvero una mia opinione o è solo qualcosa che mi ha messo in testa la paura? Cosa mi rende felice? Dovessi esprimere un desiderio, quale sarebbe? Qualsiasi siano le risposte sappi che le hai decise tu. Non sono uguali per tutti, non esiste quella giusta. Tu sei il risultato di ciò in cui credi. Avevo provato più volte a guardarmi i piedi mentre camminavo ma non ci ero riuscita, perché per poter sentire quella voce dovevo tenere il mento abbastanza alto, come se delle antenne invisibili avessero bisogno di essere orientate verso un’esatta frequenza d’onda. In quel momento ho sorriso davvero. Abbiamo continuato a parlare di qualsiasi cosa, mi suggeriva spunti, andava veloce, era un vulcano di idee e io non la contraddivo, mi sembravano tutte realizzabili, tutte potevano incastrarsi a loro modo, nei tempi giusti, avrei dovuto prendere degli appunti! Mi sono resa conto che stavo conversando con me stessa come facevo un tempo. Ho iniziato a ringraziare quella voce che avevo dimenticato esistesse, mentalmente la abbracciavo, sentivo di avere tutto quello che desideravo, non ero sola, ero connessa, ero un’isola, un Universo. Ero felice.

Onde.

La luce dorata del tramonto fa scintillare il mio cocktail attraverso il vetro del bicchiere guarnito da una fettina di limone. Alla mia sinistra una donna filippina sui quarant’anni finisce il suo drink seduta goffamente sulle gambe di un uomo sulla sessantina. Sul loro tavolino ci sono già vari bicchieri vuoti. Faccio sbuffare la mia sigaretta e non riesco a capire se si sono appena conosciuti o sono una coppia da tempo, ma la scena mi fa pensare di no. Lui le sussurra cose all’orecchio, lei mette in fila parole a caso sconnesse per via dell’alcool. Mi giro di nuovo e incrocio lo sguardo dell’uomo. Mi fissa per un breve momento con quello stesso sorrisetto furbo, quasi a confermare quello che sto pensando. La fa ubriacare per portarsela a letto e lei non sembra ingenua, ma nemmeno ha la grazia nei movimenti di una che conosce quel gioco. Provo una sensazione che è una via di mezzo tra incredulità e nostalgia. Al ritorno i dislivelli tra un giunto e l’altro del cavalcavia mi cullano come le onde del mare della mattina. Lascio scorrere una canzone d’amore alla radio senza cambiare subito canale, curiosa di sapere se mi fa un qualche effetto. Magari mi scopro innamorata, magari scioglie il ghiaccio, trova una fessura, si insinua, insomma sono pronta a tutto. L’unica cosa che sento però è la dolce stanchezza che la giornata mi ha lasciato e va bene così.

Venerdì sera.

Spingo lo sguardo il più lontano possibile.
Le luci della città appena dopo il tramonto sembrano stelle che tremano emozionate e silenziose. Vedo il profilo morbido delle colline di Napoli appena sopra le linee dure degli edifici più vicini.
Sono le nove di sera e c’è poca gente per strada. Affaccio sopra un incrocio e mi perdo ad osservare le auto di chi si sta ritirando per ultimo a casa. Sfilano tranquille una per volta e spariscono alla vista come ballerine che piroettano verso il retro del palco dopo lo spettacolo. Un motorino risale la strada in controsenso, poche persone passeggiano tranquille. Non c’è luce, ma non è nemmeno buio. Il cielo è di tanti blu diversi e a me sembrano a modo loro caldi, pacifici, accoglienti. La Luna sorride come una regina sopra il Tutto. Decido che prima di rientrare in casa voglio aspettare che passi una macchina verde e una persona vestita di rosso. Così, a caso. Scorgo Minerva che si è rifugiata sotto la sedia, vuole esserci ma senza esporsi troppo. Frodo invece è vigile, dovesse mai passare una mosca o qualche altro insetto da catturare al volo. A modo suo quel momento sembra un’alba. Forse perché è venerdì, forse perché l’aria è piena di profumi e vorrei avere il nasino esperto dei miei gatti per registrarli tutti. Ho come la sensazione che tutto sia possibile. Si! Una signora con una camicia rosso scuro attraversa la strada tenendo per mano una bambina. Mi sento carica, sorrido alla Luna e a Minerva che nel frattempo si è avvicinata timida alla ringhiera per spiare di sotto. Tengo gli occhi aperti anche io. La maggior parte delle auto sono grigie o nere. Qualcuna bianca. Seguo con lo sguardo quella appena sbucata da dietro la curva. Quello sembra, può essere… beh sarebbe scuro, ma l’Universo ha ragione, mica sono stata specifica sulla tonalità. È verde! Esulto per la vittoria al mio piccolo gioco. Mi sento come se non fossi più solo una spettatrice. Quello che è fuori è dentro e quello che è dentro è fuori. Rientro nel salotto di casa soddisfatta. Ho un brivido quando mi rendo conto che ciò che ho visto davvero, prima, era me.

Le domande senza risposta

Questo pomeriggio ho messo a lavare il piumone del mio letto in lavatrice.
Mi sono accovacciata davanti alla serie di programmi possibili da impostare e ho letto la scritta “Piumoni”. Ho girato la rotella su quella lì e ho avviato il tutto. Il display riportava un’ora e un quarto come tempi di lavaggio.
Ecco, mi piacerebbe sapere chi ha deciso che un’ora e un quarto sia un tempo giusto per lavare un piumone. Immagino il tecnico che ha progettato la lavatrice e abbia fatto un qualche calcolo per ogni tipologia di tessuto stabilendo tempi, velocità della centrifuga e non so quali altri parametri visto che la temperatura ce la metto io.
Alle volte mi perdo ad immaginare chi ha deciso, realizzato, piccoli insignificanti dettagli di qualsiasi cosa. Penso alla tipa o al tipo che ha rifatto il letto prima delle riprese delle scene della pubblicità di un detersivo, al drone che vola intorno al modello di un’auto oggetto di un altro spot e mi chiedo chissà se qualcuno l’ha visto volare da lontano.
E quando ero innamorata di te avrei dato tutto per sapere i piccoli insignificanti dettagli delle tue giornate, osservare e godere del modo in cui mettevi le chiavi dell’auto in tasca dopo aver parcheggiato, come piegavi le dita mentre ti sistemavi il colletto della camicia e se la luce, al mattino, mentre ti guardavi nello specchio del bagno, ti illuminava prima il lato destro o sinistro del viso.
La cosa però è che non faccio nulla per cercare risposte a questi quesiti. Sorrido tra me e me compiaciuta del fatto che esistano milioni di domande per cui non esiste una risposta. Misteri irrisolvibili che appartengono a dei qui ed ora ormai andati, risposte che nessuno sa, impossibili da ottenere. Quello che mi piace è proprio farmi queste domande inutili, guardare le cose di traverso e non direttamente, come quando si pulisce un vetro e si cercano gli aloni nascosti.
Così quando la luce è passata attraverso quel vetro ho ripreso a divertirmi come una bambina e questa volta amando la mia curiosità.

L’astensione

Nina appoggia la testa al pilastro bianco sporco da cui partono i gradini della scala A. Osserva i gruppetti di condomini alla sua destra e alla sua sinistra intenti in discussioni diverse, di cui le arrivano parole a caso, quelle dette a voce più alta o più stizzita a seconda di chi sta parlando. Il suo cervello si rifiuta di collegarle ancora in un filo che dovrebbe avere un senso. Mentre le sembra di seguirne uno all’improvviso si perde, il punto di vista cambia, il nesso logico scompare e le frasi sembrano strade a cui mancano incroci, rotonde e semafori. Si sovrappongono su livelli diversi, come se ognuno andasse per l’unica che conosce, la propria. Il signor Vittorio, capelli bianchi e occhi piccoli e azzurri, si aggira tra i gruppetti con aria più rilassata, ma sguardo fiero, con le mani incrociate dietro la schiena. Poco prima Nina aveva visto il suo nome nella lista degli astenuti. Si ferma vicino alla porta dell’ascensore di fronte a lei. Nina gli rivolge un sorriso e mormora in maniera che possa sentire solo lui, basta, voglio tornare a casa. Il signor Vittorio le sorride a sua volta e fa come per aprire la porta dell’ascensore, ma Nina scuote la testa, vuole prima accertarsi che si sia raggiunta una qualche maggioranza prima di abbandonarli. La signora Cristina le appare davanti sbucando a sorpresa dalla guardiola del portiere. Tu hai votato? Nina si era ripromessa che non si sarebbe fatta coinvolgere dalla sua ansia aggressiva, le dice un sì serafico e la segue per vedere a che stanno i conteggi. Avrebbe voluto chiedere al signor Vittorio perché si era astenuto dalla votazione per il cambio dell’amministratore, ma si limita ad osservarlo parlare con il suo amico che qualche momento prima quasi aveva litigato con la signora Cristina. Lui sosteneva che riunioni così importanti si dovrebbero fare con più calma e forse il signor Vittorio era d’accordo con lui. In quel momento si era creato come uno squarcio tra generazioni e sessi: le signore sulla cinquantina che andavano di fretta per raggiungere un risultato e tornare a casa a cucinare per i mariti, i signori sulla settantina che avrebbero voluto più tempo per argomentare, discutere e prendere una decisione. Nina si sentiva più solidale al gruppetto maschile, ma aveva deciso lo stesso di schierarsi pensando in fretta, come se ci si fosse abituata e non solo in quelle circostanze. Si era sentita spinta dalla voglia di raggiungere a tutti i costi un qualche risultato, nonostante la stanchezza e la poca chiarezza. Eppure lo sguardo placido e attento del signor Vittorio la rassicura e in qualche modo anche la sua astensione. L’amministratore dimesso dichiara la vittoria del candidato della signora Cristina, Nina saluta velocemente, sparisce dietro la porta dell’ascensore e mentre sale nota con gioia che le voci diventano mormorii sempre più lontani.

Il mio canto di Natale

Fisso il bordo del piumone che mi piace sia rigorosamente tra naso e bocca.
Mi viene in mente A Christmas Carol. Mi stupisco perché in effetti non ci avevo mai riflettuto fuori dal momento della visione dei vari film che lo rappresentano. Sarà che sto invecchiando, penso. Mi si sono parati davanti agli occhi i Natali passati. La famiglia, le tavolate, la tombola, i nonni, il cibo che bastava per il triplo delle persone. Poi velocemente la scena cambia. L’atmosfera è fredda, i colori cupi. Non mi vedo, non vedo nessuno. Stanze vuote, luci spente, i contorni degli oggetti appena illuminati dalle luci della strada filtrate dai vetri dei balconi. I miei fantasmi non hanno avuto molto da fare, ho realizzato subito che l’unico Natale che esiste è quello presente. E’ quello per cui puoi fare qualcosa.
La stessa cosa vale un po’ per tutto il resto.
Oggi è l’unico giorno per cui puoi fare qualcosa. Puoi immaginarlo già tutto dal mattino, vederti nelle cose realizzate e vedere che in effetti si realizzano con poco sforzo. E così un giorno alla volta. Non puoi fare niente per le relazioni passate, le persone sparite e quelle che non ci sono più per davvero. Non puoi fare niente per quella te che avevi abbandonato per stare dietro agli altri, ma puoi guardarti adesso, ascoltarti adesso, prenderti cura del tuo corpo e della tua anima adesso.
Questa mattina mentre passeggiavo cercavo come al solito di sorprendere il nuovo anno in un guizzo nell’aria, una folata di vento diversa, in un raggio di sole specifico che qui sembra di primavera, in uno sguardo, ma come al solito non ho trovato nulla. Non credo che l’Universo sappia della bizzarra suddivisione che diamo al tempo e penso che di Capodanni nel corso di un anno ce ne siano diversi. Un passo alla volta ho cercato di spostare l’attenzione su oggi. Senza nostalgia di ieri, senza paura del domani.

Nuvole di vapore.

Nina aspira aria dal cilindretto di metallo rosa e dalle labbra schiuse fuoriesce del vapore che sa di fragole, mandorle e vaniglia.
Le avevano detto di non lasciarlo andare subito, ma non capisce come. Riprova, aspira di nuovo, ma questa volta chiude la bocca. Quando la riapre il vapore che esce è pochissimo.

Nina guarda il cilindretto perplessa. Non ha mai capito cosa provano le persone che fumano. A lei quel fumo chiude le narici, disturba. Qualche volta è stata investita da altri fumi che poi ha saputo essere vapori, di diversi aromi, non sempre gradevoli. Tuttavia Nina è sempre stata attratta da quei gruppetti di fumatori che si appartano in ogni luogo. Quelle persone che interrompono una conversazione per accendersi una sigaretta sul balcone, i colleghi che escono dall’ufficio per fumare all’aperto, i clienti di un centro commerciale che sfidano il freddo sulla terrazzina dietro alla porta antipanico. In qualche modo nonostante le avessero inculcato che il fumo fa male, le invidiava. Si era sempre chiesta cosa avessero in comune. La maggior parte delle volte si trattava di sconosciuti che però in qualche modo sembrava si fossero dati un appuntamento preciso, come se l’ansia, l’inquietudine possano essere sincrone in persone che non si sono mai viste prima, e per motivi diversi.

In ufficio Nina aveva notato che i colleghi fumatori avevano come dei permessi speciali per prendersi più pause. Lei era riuscita a seguirli al massimo due volte, per i soli due caffé della sua giornata. In un paio di occasioni si era unita al gruppo con la scusa di prendere un po’ d’aria, ma si era rivelata una cattiva idea perché l’aria era la loro, molto poco piacevole da respirare cercando di mantenere anche una distanza che permettesse brevi conversazioni. Chi non fuma come scarica lo stress? Troppi caffè non sono il caso, il cibo la farebbe ingrassare, le caramelle senza zucchero dopo la seconda ci si stufa.

Nina aspira di nuovo dal cilindretto, è una sigaretta elettronica usa e getta. La prima gliel’aveva mostrata un’amica, ne aveva parlato molto bene, ha un ottimo sapore dolce e fresco. Una sera dopo lavoro Nina si era recata dal tabaccaio con la coda tra le gambe come se stesse per commettere un delitto imperdonabile. Era troppo curiosa di provarne una. Dalle varie descrizioni lette aveva scelto l’aroma che somigliava a quello di una torta.

Questa volta modula il respiro per far uscire il vapore lentamente. Nina alza lo sguardo e si perde ad osservare i volteggi delle lingue di vapore che salgono e svaniscono o i ghirigori che ruotano in senso antiorario in giri sempre più stretti. Al tiro successivo il vapore esce tutto insieme in una nebbia fitta. Nina si rilassa tra quelle nuvolette effimere che sembrano portarsi via qualcosa dalla sua mente affollata. Le vengono in mente le curanderas ecuadoriane che puliscono le persone dalle energie negative soffiando fumo di tabacco su tutto il corpo e ripetendo litanie in lingue antiche.

Piano piano capisce come respirare quel vapore che sembra dare alla testa una piacevole sensazione di leggerezza. Lo posa sulla scrivania, per oggi basta. Nina sorride pensando che con quel cilindretto tra le dita potrebbe avere accesso a quelle misteriose riunioni di sconosciuti, ma non riesce ad immaginare le sue nuvolette mischiarsi con quelle degli altri, le sue lingue di vapore arrotolarsi con fumi estranei, fare a botte per conquistarsi spazio per salire ed evaporare in santa pace. Annuisce gelosa dei suoi sbuffi di vapore, come se nel loro volteggiare potessero raccontare storie che vuole tenere solo per sé.