Una comunità figlia del Colonialismo, il peso e l’orgoglio di essere italo-etiopi

C’è una storia italiana che passa per il Corno d’Africa. Etiopia 1936. Pioggia di iprite sul millenario impero abissino, e i tallian sollato conquistano il posto al sole promesso dal Duce. Di quella drammatica avventura coloniale resta molto più di quanto la nostra coscienza nazionale abbia saputo elaborare. Identità pendolari sull’asse Roma-Addis Abeba. Figli di amori coraggiosi o rapaci, nati dentro la guerra.

Oggi in Italia esiste una comunità di 22.000 italo-etiopi, rimpatriati a cavallo degli anni Settanta per sfuggire al “terrore rosso” del regime di Menghistu. Venito Nerini è nato ad Harar, a 300 km dal confine somalo, ma da quasi trent’anni vive a Brescia. Vi giunge con moglie e figli dopo aver perso un fratello, vittima accidentale di uno scontro a fuoco tra la polizia e un gruppo di ribelli.

“Fu mio padre – racconta – ad insistere perché partissi. L’Italia aveva bisogno di manodopera nell’industria pesante, e offriva ai cittadini delle ex colonie disposti a rimpatriare un’indennità di sistemazione pari a 500.000 lire e un alloggio in affitto”. A Brescia Venito, al quale tuttora non vengono riconosciuti i titoli di studio maturati in Etiopia, torna sui banchi di scuola per ottenere il diploma superiore, tra compagni che, ricorda divertito, lo chiamano “papà”; trova un impiego in una ditta di meccanica di precisione.

“Avevo una certa confidenza col settore” rivela. “In Etiopia lavoravo nell’officina meccanica di mio padre, toscano, un tempo macchinista sul treno a vapore Massa Carrara-Pisa. Lui, che non aveva fatto la guerra perché inidoneo al servizio militare a causa di un incidente sul lavoro, era finito ad Harar per cercare i suoi due fratelli caduti nelle mani degli inglesi. Conobbe mia madre, se ne innamorò, e alla notizia che aspettava un bambino decise di restare con lei in Etiopia”. Altre donne abissine non furono così fortunate: tanti i bambini di padre italiano non dichiarati agli uffici dell’Ambasciata.

Oggi l’Etiopia vuole indietro quelli che considera anche suoi figli, e molti di loro rifanno le valigie per riabbracciare la terra materna. “Paradossalmente – spiega Venito – il governo etiope è più attento a noi di quanto lo sia il governo italiano. Ha capito che, con la nostra esperienza di cittadini di uno stato economicamente e tecnologicamente avanzato, possiamo diventare una risorsa per il Paese, e ci incoraggia a tornare offrendoci agevolazioni per mutui ed investimenti e un terreno edificabile. Non abbiamo la cittadinanza etiope e non possiamo partecipare alle elezioni, ma possiamo lavorare liberamente in Etiopia, ed entrare e uscire dal Paese senza dover presentare il visto. In Italia invece siamo considerati cittadini di Serie B”.

Gli italo-etiopi rivendicano pari diritti rispetto agli italo-libici, che godono per legge di un bonus previdenziale di cinque anni; vogliono essere coinvolti nelle politiche assistenziali e finanziarie del governo nei confronti dell’Etiopia, attraverso una corsia preferenziale per i loro professionisti nell’affidamento di incarichi e responsabilità; chiedono agevolazioni per l’acquisto degli immobili loro destinati fin dalla legge speciale 137/52.

“Abbiamo contribuito col sudore ai progressi del nostro Paese – commenta Venito – senza mai osare pretendere nulla, per non disturbare. Ora, però, vedendo crescere l’interesse generale sul tema dell’immigrazione, temiamo di scendere ulteriormente nella scala delle priorità. E’ ingiusto, ci siamo anche noi”.

Da un anno è attiva in Lombardia l’associazione “Amicizia Italo-Etiope”, presieduta dallo stesso Venito, che presto aderirà al CIPRE (Comitato Italiani Profughi, Rimpatriati e all’Estero). Nata a Brescia, raccoglie 200 iscritti e circa 4000 simpatizzanti, ma vuole allargare la sua rete anche oltre la Lombardia, alle città di Torino, Udine e Roma, dove esiste una cospicua rappresentanza di italo-etiopi.

L’idea fondante è la creazione di un ponte con lo stato africano, che permetta di sostenere lo sviluppo dell’Etiopia mediante iniziative benefiche – un esempio per tutti l’asta della maglia di Roberto Baggio in favore delle popolazioni colpite dalla siccità – e di sanare sul piano etico le ferite del colonialismo italiano. “Anche se gli Etiopi si sono buttati alle spalle le stragi fasciste – sottolinea Venito – ci meravigliamo di come alcuni nostri leader politici si siano sentiti in dovere di scusarsi con Israele per le leggi razziali e non con l’Etiopia per gli innumerevoli massacri compiuti dai soldati del Duce. Beh, ce ne scusiamo noi”.

Ma la sfida più difficile per l’associazione è riuscire a potenziare l’identità culturale dei suoi membri, alle prese con un irrisolto complesso di inferiorità. “Secondo la legge – chiarisce Venito – io sono un cittadino italiano a tutti gli effetti, ma non vengo accettato dagli italiani come tale. Allo stesso modo, per gli etiopi non sarò mai un vero etiope. Non appartengo completamente né agli uni né agli altri: da qui la necessità di confrontarmi con persone che condividono le mie insicurezze”.

L’incertezza identitaria degli italo-etiopi è, d’altra parte, speculare alla loro ricchezza. Venito e gli altri portano dentro di sé due sistemi di valori, quello europeo e quello africano, che si incastrano e si sposano in una dignitosa umiltà. “Primo: rispetta gli altri. E’ un comandamento di mia madre. Se c’è un punto su cui gli etiopi non transigono, questo è l’onore, e fare del male a qualcuno per loro vuol dire disonorare la propria famiglia: ecco perché disvalori moderni come droga e alcool non hanno mai fatto parte del DNA di noi italo-etiopi. Questo, però, non ci rende meno occidentali. Mi sento profondamente legato alla civiltà del mio Paese, e sapete una cosa? I miei figli, nati da padre italo-etiope e madre etiope, sono più italiani di me”.

Graziana Urso