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Paolo Fabiani Dall’arte dell’immaginazione alla scienza della mente. Alcune considerazioni sul concetto di memoria in Malebranche e Vico Laboratorio dell’ISPF, XIV, 2017 8 DOI: 10.12862/Lab17FBP [...] il cielo finalmente folgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, come dovett’avvenire per introdursi nell’aria la prima volta un’impressione sì violenta. Quivi pochi giganti, che dovetter esser gli più robusti, ch’erano dispersi per gli boschi posti sull’alture de’ monti, [...] eglino, spaventati ed attoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché in tal caso la natura della mente umana porta ch’ella attribuisca all’effetto la sua natura, come si è detto nelle Degnità, e la natura loro era, in tale stato, d’uomini tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero il cielo esser un gran corpo animato, che per tal aspetto chiamarono Giove, il primo dio delle genti dette «maggiori», che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse dir loro qualche cosa1. Questo è uno dei passi più importanti di tutta La Scienza Nuova: la descrizione del momento in cui è nato il pensiero nel primitivo. Il pensiero nasce come immagine di un evento fisico, atmosferico: il temporale, interpretato però in maniera fantastica, come un grande essere (Giove) che parla attraverso il tuono e il fulmine. La divinità non è ancora concettualizzata, non è intesa metaforicamente – di una metaforicità astratta2 – come se essa fosse in realtà “dietro” l’ammasso delle minacciose nubi. È invece essa stessa quelle minacciose nubi, è essa stessa quei tuoni e quei fulmini. Non c’è astrazione tra la manifestazione divina e la sostanza divina. L’immagine che così il “gigante” si rappresenta non è un travisamento dell’evento atmosferico è, al contrario, quello stesso “fatto” per come la percezione lo pone alla sua attenzione. È l’interpretazione – tutta senso e niente intelletto – di ciò che egli vede a far nascere il pensiero, e il pensiero è nato “con” e “tramite” la fantasia. Quest’ultima non è soltanto nel “gran corpo” ma, per lo più, nel pensarlo “animato”, nel persuadersi che esso sia una divinità che parla e si rivolge proprio a lui, al “gigante”, cioè al primitivo. Immagine, parola, interpretazione, persuasione, assenza di capacità di astrazione: questi gli elementi fondanti l’antropologia vichiana ma questi anche – almeno in parte – gli elementi alla base della sua arte oratoria. Il “risvegliarsi” dell’umanità ingentilita postdiluviana è però soltanto l’inizio di un lungo e intricato percorso cognitivo (diremmo oggi noi), un pensiero che per svilupparsi, rafforzarsi e fin anche trasformarsi, ha avuto bisogno di un altro elemento fondante: la memoria, cioè il permanere di un pensiero in una mente e il traman1 G. B. Vico, Principi di Scienza Nuova, a cura di F. Nicolini, Napoli-Milano, Ricciardi Editore, 1953, p. 146. La stessa edizione è stata riproposta da Mondadori nella collana Oscar con varie riedizioni (prima edizione Oscar Classici, 1992 qui presa a riferimento). In ragione della sua diffusione e facile reperibilità, questa edizione viene qui presa a riferimento al posto di quella facente parte delle Opere di Giambattista Vico, 1914-1941, a cura di B. Croce, F. Nicolini, G. Gentile, Bari, Laterza, 8 voll. 2 La metaforicità della poesia precede cronologicamente, logicamente e “cognitivamente” la metaforicità del pensiero prosaico (aggettivo da intendersi qui in senso strettamente etimologico). Vico si dilunga in più parti su questo tema ma esso viene da lui sinteticamente espresso nella famosa sentenza: «fu Omero incomparabil poeta; perché, nell’età della vigorosa memoria, della robusta fantasia e del sublime ingegno, egli non fu punto filosofo» (Ivi, p. 402). Ma, ancor più succintamente: «l’intendimento che non è né memoria né fantasia» (Ivi, p. 314). Dall’arte dell’immaginazione alla scienza della mente darsi di un racconto (o un insieme di racconti) in una comunità, di tempo in tempo, nella storia. La memoria infatti più che un soggetto di ricerca in ambito filosofico lo era in quello retorico. Il pensiero umano che prende forma nell’arte oratoria rappresenta il traguardo di una mentalità che aveva avuto come punto di partenza quella “retorica delle origini” esposta ne La Scienza Nuova, il linguaggio degli dei e degli eroi3. Al centro di questo percorso teoretico si pongono di diritto il problema della persuasione e, soprattutto, quello della memoria4. Immaginazione, fantasia, persuasione (autopersuasione) e memoria sono temi strettamente connessi nell’argomentazione vichiana. La mitopoiesi è un processo di autopersuasione prima ancora che persuasione dell’altro e, al tempo stesso, essa è il primo “veicolo” della memoria, sia di quella individuale che di quella collettiva. Questo il punto cruciale che va ben evidenziato: la mitopoiesi è un atto mentale di (auto-) persuasione e di memoria. Nella “retorica” dei popoli colti le due forme di persuasione vengono analizzate come processi in buona parte differenti ma, nella ricostruzione della nascita delle nazioni gentili, persuadere gli altri è un passo successivo al persuadere sé stessi: il primo non può essere senza il secondo. Vi sono quindi due tipi di retorica: una irriflessa e primitiva, fatta di senso, passione e immaginazione; ed una colta, matura, intellettualizzata fatta di immaginazione, passioni e strategia linguistica astratta. Il fine di entrambe è persuadere e fissare le credenze nella mente attraverso la memoria. Compito dell’oratore – che Vico intende formare con le Institutiones Oratoriae – è appunto quello di persuadere gli altri; lo stesso compito che – su un altro piano teoretico – ne La Scienza Nuova era affidato ai miti, al gran corpo animato di Giove (il temporale) e ai suoi discorsi (il tuono ed il fulmine); ovvero al primitivo che si autopersuadeva dell’esistenza della divinità (e così facendo uscire dallo stato bestiale per entrare nella dimensione del pensiero, sebbene un pensiero all’inizio “immerso” soltanto nella sensibilità e nell’immaginazione) convinto però che fosse l’altro (la divinità) a parlargli e quindi a convincerlo all’obbedienza. Nella “retorica compiuta” è l’oratore che convince l’ascoltatore; nella “retorica delle origini” invece è il gigante “ascoltatore” che convince sé stesso attraverso il discorso immaginario di un medio (il divino), inesistente in quanto tale (ovvero inesistente fuori dalla sua – del gigante – immaginazione), ma presente tramite un fenomeno atmosferico. Questo viene interpretato con l’immaginazione ma senza la frapposizione dell’intelletto, il quale interverrà soltanto in una fase successiva dell’evoluzione cognitiva, sociale e storica dell’umanità dando il via ai processi di astrazione e distinzione tra segno e significato, tra la 3 A tal riguardo la bibliografia su questo aspetto della filosofia vichiana comincia ad essere veramente copiosa e, senza dubbio, rappresenta il filone maggiormente sviluppatosi negli ultimo 30-40 anni. Come prima indicazione comunque possiamo riferirci ad alcuni classici del settore: P. Rossi, Le sterminate antichità: studi vichiani, Pisa, Nistri-Lischi, 1969; D. P. Verene, Vico’s Science of Imagination, Ithaca (N.Y.)-London, Cornell University, 1981; G. Cantelli, Mente Corpo Linguaggio, Firenze, Sansoni, 1986; M. Sanna, La “fantasia, che è l’occhio dell’ingegno”. Note sul concetto vichiano di conoscenza, Napoli, Guida, 2001. 4 Si veda P. Fabiani, La filosofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche, Firenze, Firenze University press, 2002. 3 Paolo Fabiani sostanza divina e il suo manifestarsi. In questa prima fase invece sostanza e manifestazione della divinità sono la stessa cosa: Giove, cioè l’ammasso tuonante delle nubi. Quel temporale è la divinità stessa, non una sua semplice manifestazione simbolica, non un messaggio che ella manda “da dietro”. Giove è tutto e soltanto nell’evento atmosferico. Quest’ultimo però non viene percepito in quanto tale, ma subito interpretato: il poeta teologo in realtà percepisce e “ricorda” Giove, non il temporale5. La retorica delle Institutiones Oratoriae ci insegna come persuadere attraverso la creazione di discorsi (e quindi di pensiero compiuto, cioè astratto e razionalmente organizzato)6, mentre la “retorica” de La Scienza Nuova mostra come la creazione di discorsi metaforico-sensibili (quale è la manifestazione di Giove attraverso il temporale) persuada sé stessi dell’esistenza del pensiero. Detto in altri termini, mentre la retorica compiuta (che ha assunto forma teoretica nelle opere di Aristotele, Cicerone, Quintiliano ecc.) crea pensiero per persuadere, la retorica delle origini persuade per poter creare pensiero e, così, dare avvio all’umanità storica. All’umanità cioè che ricorda le proprie credenze, le proprie, per quanto preconcette (da intendersi in senso strettamente etimologico: “che vengono prima dei concetti”) immagini poi idealizzate, all’umanità della memoria. Infatti il pensiero deve avere una “persistenza” nel tempo, deve cioè essere memorizzato. Non deve essere una scintilla che subito si spenge e si dissolve, ma un fuoco che mantiene costantemente la fiamma. I miti sono quindi strumenti di persuasione e veicoli di memoria, attraverso essi l’uomo ha persuaso sé stesso “di” pensare, ed ha iniziato a pensare ricordando. Una retorica questa non astratta ed impersonale, ma autoreferenziale e soggettiva, un ordine di discorsi – e del discorso – come fosse una mappa teoretica alla quale forse Vico è giunto anche (e quindi “non soltanto”) compiendo un’analisi a ritroso7: partendo dallo studio della “retorica compiuta e dottrinale” tipica di una mentalità matura (quella che sviluppa – parallelamente all’arte del ben parlare e del corretto argomentare – un’arte della memoria) e procedendo per “de-astrazione” fino a ricostruire ne La Scienza Nuova una retorica delle origini, la retorica dei miti appunto. Per Vico la retorica non è (soltanto) una scienza astratta e creata 5 Dalla prospettiva vichiana soltanto noi, facendo parte di una comunità socialmente e intellettualmente evoluta, possiamo chiamare evento atmosferico il temporale e il cielo. Per il gigante vichiano l’evento atmosferico semplicemente non esiste, esiste soltanto Giove. Siamo noi che a seguito dell’evolversi del pensiero e del linguaggio riusciamo a fare astrazione e a pensare al cielo e al temporale come evento atmosferico. La difficoltà a cogliere questo punto profondamente fa parte della difficoltà a intendere la nascita del pensiero e delle civiltà che Vico espose con famose parole: «ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta immaginativa di que’ primi uomini, le menti de’ quali di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualezzate, perch’erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi: onde dicemmo sopra ch’or appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i primi uomini che fondarono l’umanità gentilesca» (G. B. Vico, Principi di Scienza Nuova, cit., p. 147). 6 G. B. Vico, Institutiones Oratoriae, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 1989, pp. 4-9. 7 Anche in questo senso, sebbene non soltanto in questo senso, va intesa la famosa tesi: «ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta immaginativa di que’ primi uomini» riportata alla nota n. 5. 4 Dall’arte dell’immaginazione alla scienza della mente ad hoc da eruditi alieni dalla realtà, e neppure è nata per ragioni meramente pratiche, per convincere le giurie in tribunale, per coinvolgere la propria fazione e quella avversa nei dibattiti politici ecc. La retorica rispecchia la mentalità umana, e si trasforma parallelamente a come muta la mentalità nelle diverse fasi della storia; la retorica segue le stesse regole che segue la mente nel pensare tout court. Ciò non significa, per contro, ridurre il pensiero entro i limiti dell’ars oratoria, per quanto quest’ultima possa essere intesa in senso ampio. Nel mito persuasione, immaginazione e memoria si fondono e ne costituiscono gli elementi base. Vico analizza il composto (i miti) e gli elementi che lo compongono (persuasione, immaginazione e memoria) da una prospettiva soggettivistica moderna piuttosto che partendo da un’impostazione tardorinascimentale. Il discrimine lo fa la prospettiva soggettivistica da cui Vico considera la coscienza. Ciò che avviene nella realtà del primitivo non è quel che realmente accade nella realtà materiale, ma avviene unicamente nel suo pensiero: l’interpretazione si antepone alla percezione e l’interpretazione percettiva del vissuto è un fatto puramente interno alla coscienza dell’individuo. Tutta la ricostruzione della nascita dei miti nella filosofia di Vico parte da una descrizione di quell’animo perturbato e commosso analizzato in sé stesso, senza riferirsi ad altro rispetto a ciò che è interno al soggetto stesso. In linea generale, e prescindendo dalle eccezioni che sempre ci sono, anche là dove Vico descriva e spieghi usanze, costumi, lingue, fatti storici in maniera apparentemente “pragmatista”, la sua interpretazione soggettivistica della coscienza umana sempre traspare e fa da sottofondo8. Ma c’è un altro motivo: nelle Institutiones Oratoriae, la discussione sulla memoria, a differenza degli altri trattati di retorica precedenti e coevi, è veramente ridotta ai minimi termini. Il motivo di ciò non è stilistico o meramente arbitrario, bensì soddisfa alcune posizioni teoretiche assunte da Vico, come cercherò di mostrare nel prosieguo dell’articolo. Ritorniamo quindi alla citazione in epigrafe: come ha fatto l’uomo a passare da uno stato bestiale, dominato completamente dall’istinto, ad una qualche forma di pensie8 Ho trattato l’argomento del soggettivismo in Vico in: P. Fabiani, Il problema dell’immaginazione da Descartes a Vico, in «Chora», Rivista di Filosofia dell’Università di Milano, dossier: La facoltà dell’immaginazione, 2004; Id., Classificazione delle scienze e principio dell’Errore nel De Antiquissima, in G. Matteucci (a cura di), Studi sul De Antiquissima Italorum Sapientia di Vico, Macerata, Quodlibet, 2001, pp. 21-48; Id., I fondamenti scientifici della psicologia vichiana, in La filosofia dell’immaginazione in Malebranche e Vico, cit., pp. 39-54. La questione è complessa e molto dibattuta e non posso riproporla qui, mi limito esclusivamente a rilevare che la definizione che Vico dà di memoria (e di immaginazione) è relativa all’atto del percepire, come qualcosa che ha la propria ragion sufficiente all’interno della coscienza stessa, un qualcosa che non ha bisogno di riferirsi all’esterno, cioè a una presupposta realtà esterna, ma soltanto al modo interno (alla coscienza) di sentire: «“Memoria” era detta dai latini la facoltà che conserva nel suo deposito le cose percepite dai sensi, facoltà che era detta “reminiscentia” quando le richiama. Ma la parola significava anche la facoltà con la quale formiamo le immagini, detta dai greci “phantasia” e da noi “immaginativa”; giacché ciò che noi comunemente chiamiamo “immaginare” i latini chiamavano “memorare”. Forse perché non possiamo immaginare se non ciò che ricordiamo e non ricordiamo se non ciò che possiamo percepire coi sensi?» (G. B. Vico, De Antiquissima Italorum Sapientia, in Id., Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 114-116). 5 Paolo Fabiani ro che ne determinerà, nel seguito della sua storia, l’umanità vera e propria? Questo, a mio avviso, il problema a fondamento del progetto teoretico di Vico. La risposta che egli si dette – e che ci ha tramandato attraverso le sue opere – è che il primo uomo, trovandosi davanti al pauroso spettacolo di una tempesta, invece di andare a nascondersi in qualche anfratto per cercare riparo come aveva sempre fatto fino a quel momento (seguendo l’istinto animale), restò immobile9 come rapito e bloccato dal tuono e dal fulmine. La prima immagine come reazione all’istinto è già un primo atto di memoria, è già un ricordo trattenuto a mente, così come trattenuto è il corpo dal lasciarsi andare in una istintiva fuga verso un riparo. Per la prima volta il “bestione”, invece di reagire come un animale, non si limitò a vivere la propria paura ma la interpretò e come la interpretò? Egli si finse il cielo un gran corpo animato, ovvero come un enorme essere, come una divinità appunto che attraverso il tuono ed il fulmine gli voleva dire qualcosa. Il pensiero umano per Vico è quindi nato con un atto di interpretazione, non con finalità meramente utilitaristiche e pragmatiche (come potrebbe essere il pensiero strumentale che nasce dalla capacità di usare strumenti per risolvere problematiche “materiali”), ma sgorgato dalla “facoltà immaginativa”, dalla possibilità di rappresentarsi immagini nella propria mente e di interpretarle in considerazione dei moti della propria anima. Ma l’interpretazione dell’accaduto è già di per sé mnemonica, in quanto “trattenuta” a mente assume fin da subito la forma del ricordo. In fin dei conti, oltre al raziocinio e all’immaginazione, è la memoria a marcare la differenza tra animale e uomo. Certo, anche l’animale ha memoria, ma non è strutturata in un sistema “immaginifico-fantastico” e semantico come invece accade nell’uomo. Il pensiero nasce quindi con una struttura che si riflette nella sua memoria “composta per immagini poietiche” e che poi, con l’evolversi della civiltà e il dipanarsi della storia, prenderà la sua forma matura, compiuta ed astratta nella retorica classica. Il percorso logico-critico compiuto da Vico è quindi quello di partire dall’analisi linguistico-filosofica della retorica e, procedendo a ritroso, ricostruire la lingua delle origini che è metaforica ma non astratta (come lo è invece quella del retore), una metafora “concreta” per così dire: Giove è la metafora di sé stesso perché Giove è quel tuono, quel fulmine e quel gran corpo animato che il bestione vede nel cielo. Il cielo non esiste, esiste Giove. L’analisi del primo mito d’altronde potrebbe venir resa anche entro i termini delle parti della retorica classica (inventio, dispositio, elocutio, memoria, pronunciatio)10. Lo si nota facilmente nel passo seguente in cui la prima cosa che si deve fare nell’antropologia storica è la stessa che in retorica, l’inventio, così come si evidenzia l’incapacità dei primitivi a categorizzare gli eventi e le cose, cioè a trovare tòpoi, ovvero luoghi comuni; l’impossibilità per la loro mente di contare (quindi come incapacità 9 «[...] la religione degli auspìci di Giove; siccome gli «resi immobili per lo spavento» restarono con frase eroica detti a’ latini “terrore defixi” [...]» (G. B. Vico, Principi di Scienza Nuova, cit., p. 151). 10 Su questo argomento si consulti F. Botturi, La Sapienza della storia. G. B. Vico e la filosofia pratica, Milano, Vita e pensiero, 1990. 6 Dall’arte dell’immaginazione alla scienza della mente di classificare), là dove la loro memoria riproduceva, come differenti, elementi uguali soltanto perché si manifestavano in soggetti o momenti differenti. [...] prima è ‘l ritruovare, poi il giudicar delle cose, così conveniva alla fanciullezza del mondo di esercitarsi d’intorno alla prima operazion della mente umana, quando il mondo aveva di bisogno di tutti i ritruovati per le necessità ed utilità della vita, le quali tutte si erano provvedute innanzi di venir i filosofi, come più pienamente il dimostreremo nella Discoverta del vero Omero. Quindi a ragione i poeti teologi dissero la Memoria esser «madre delle muse», le quali sopra si sono truovate essere l’arti dell’umanità. È, in questa parte, da punto non tralasciare quest’importante osservazione, che molto rileva per quello che nel Metodo si è sopra detto: ch’or intender appena si può, affatto immaginar non si può come pensassero i primi uomini che fondarono l’umanità gentilesca, ch’erano di menti così singolari e precise, eh’ad ogni nuov’aria di faccia ne stimavano un’altra nuova, com’abbiam osservato nella favola di Proteo; ad ogni nuova passione stimavano un altro cuore, un altro petto, un altr’animo: onde sono quelle frasi poetiche, usate, non già per necessità di misure, ma per tal natura di cose umane, quali sono «ora», «vultus», «animi», «pectora», «corda», prese per gli numeri loro del meno11. La divinità parla per prima all’uomo ed egli si persuade di ciò che pensa restando persuaso da ciò che ha visto, sentito ed interpretato come parola. Il pensiero umano nasce quindi come un particolare atto di persuasione “autoinferta”, un atto però irriflesso: il gigante infatti non è consapevole che l’impaurirsi davanti al temporale e il fingersi che esso sia una divinità (Giove) rappresenti il suo primo pensiero. La prima nozione di cui è consapevole non è la consapevolezza di sé ma dell’altro, di un “altro” non reale per come viene da lui percepito, ma immaginato realmente nella sua fisicità. Non è consapevole che si tratti di un gioco delle parti recitato tutto all’interno della sua intorpidita mente. Qui è lo scarto tra la sua bestialità e la sua umanità: questo primo “poeta teologo” pensando e ricordando tramite il mito le proprie fantasie si persuade “di” e “da” sé, crede come reali le cose partorite soltanto dalla sua fantasia12. Tali fantasie però, e questo è il secondo elemento importante, sono sempre connaturate alle capacità della mente di ricordare immagini e di risvegliare tramite esse passioni, nonché direttamente proporzionali alle capacità percettive e all’eccitabilità della sensibilità. Le fantasie sono sequenze di immagini caricate di passionalità, di sentimento – e questo è anche la memoria: una sequenza di immagini emotivamente rilevanti: «la fantasia, ch’altro non è che memoria o dilatata o composta»13. IX. Che tali storie si dovettero naturalmente conservare a memoria da’ comuni de’ popoli, per la prima pruova filosofica testé mentovata: che, come fanciulli delle nazio11 G. B. Vico, Principi di Scienza Nuova, cit., p. 386. «Tal generazione della poesia ci è finalmente confermata da questa sua eterna propietà: che la di lei propia materia è l’impossibile credibile, quanto egli è impossibile ch’i corpi sieno menti (e fu creduto che ‘l cielo tonante si fusse Giove)» (Ivi, p. 149). 13 Ivi, p. 96. 12 7 Paolo Fabiani ni, dovettero maravigliosamente valere nella memoria. E ciò, non senza divino provvedimento: poiché infin a tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui, non si era ritruovata ancora la scrittura volgare (come più volte sopra si è udito da Giuseffo contro Appione), in tal umana bisogna i popoli, i quali erano quasi tutti corpo e quasi niuna riflessione, fussero tutti vivido senso in sentir i particolari, forte fantasia in apprendergli ed ingrandirgli, acuto ingegno nel rapportargli a’ loro generi fantastici, e robusta memoria nel ritenergli. Le quali facultà appartengono, egli è vero, alla mente, ma mettono le loro radici nel corpo e prendon vigore dal corpo. Onde la memoria è la stessa che la fantasia, la quale perciò “memoria” dicesi da’ latini (come appo Terenzio truovasi “memorabile” in significato di “cosa da potersi immaginare”, e volgarmente “comminisci” per “fingere”, ch’è propio della fantasia, ond’è “commentum”, ch’è un ritruovato finto); e “fantasia” altresì prendesi per l’ingegno (come ne’ tempi barbari ritornati si disse “uomo fantastico” per significar “uomo d’ingegno”, come si dice essere stato Cola di Rienzo dall’autore contemporaneo che scrisse la di lui vita). E prende tali tre differenze: ch’è memoria, mentre rimembra le cose; fantasia, mentre l’altera e contrafà; ingegno, mentre le contorna e pone in acconcezza ed assettamento. Per le quali cagioni i poeti teologi chiamarono la Memoria “madre delle muse”14. Senza la memoria il mito non si sarebbe tramandato, il primo poeta teologo avrebbe forse ripetuto ininterrottamente e in maniera indifferenziata sempre quel primo confuso pensiero e non sarebbe mai andato oltre, o forse non sarebbe neppure mai arrivato ad una qualche forma riflessiva. In tale prospettiva “il discorso” (tanto quello immaginato di Giove che parla col tuono e il fulmine, quanto quello reale che si svolge nelle conversazioni ordinarie nel mondo civilizzato) – e tutta la teoria che gli sta dietro – viene a perdere ogni senso se lo si vuol far essere mero “linguaggio persuasivo” o, da una prospettiva opposta, utilitaristico. Il discorso non deve persuadere direttamente, esso deve suscitare fantasie, aspettative, speranze, dubbi ecc. nell’ascoltatore in maniera tale che poi quest’ultimo, per suo conto, si convinca da solo di ciò che, in verità, noi vogliamo convincerlo. In maniera paritetica il “proferire” del mito è sempre un discorso nel quale oratore ed ascoltatore sono la stessa persona. La persuasione è sempre un atto di autopersuasione e di memorizzazione (perché non si può restare persuasi da qualcosa che non si ricorda), e l’atto di autopersuasione è sempre un atto creativo, poetico direbbe Vico, cioè che produce pensiero. La persuasione (e l’immaginazione e la memoria che necessariamente seguono) quindi può rappresentare una tematica “ponte” tra Intitutiones Oratoriae e La Scienza Nuova anche se spesso con sfumature diverse e, a volte, conseguenze antitetiche, nell’una e nell’altra opera15. Le tecniche di persuasione e memorizzazione (che nell’ars oratoria assumono la connotazione di costrutti tecnici e operativi attraverso cui il retore si appropria volontariamente della propria memoria) nella mente primitiva16 – per co14 Ivi, p. 386. Paolo Fabiani, La persuasión desde Las Institutiones Oratoriae a La Scienza Nuova, in «Caudernos sobre Vico», CIV, 1997, 7, pp. 59-73. 16 Implicitamente Vico tratta delle mnemotecniche o, più propriamente, dei modi per memorizzare nei tempi eroici in relazione alla rima e, più in generale, alla poesia. L’esempio di Omero viene riproposto più volte anche a questo scopo: egli infatti «lasciò i suoi poemi alla 15 8 Dall’arte dell’immaginazione alla scienza della mente me indagata nell’antropologia linguistica vichiana – non passano soltanto né, soprattutto, per i canali razionali della coscienza. Esse seguono invece le strade che conducono l’uomo a rappresentarsi il mondo e a mantenere nel tempo questa rappresentazione presente alla sua mente; è in base alla rappresentazione che egli si dà della propria realtà che poi prenderà le proprie decisioni e, queste, a posteriori, sono gli unici indicatori oggettivi per valutarne gli effetti. La persuasione (così come la memorizzazione che la necessita) non è quindi mai diretta al convincimento razionale anche se può usare argomenti razionali, ma questi ultimi da soli e di per sé non servono a niente, devono potersi inserire all’interno di un contesto creato e gestito dall’immaginazione. Stesso discorso vale per i desideri e le passioni dell’animo umano: questi sono sempre relativi alla rappresentazione che l’individuo ha di sé stesso e di ciò che vuol ottenere, la manipolazione dei desideri dell’uomo è finalizzata sempre a modificare l’immaginazione ma, per poterla modificare, quest’ultima deve avere elementi che permangono nella mente, e si ritorna ancora una volta al problema della memoria. Il pensiero umano è per sua natura persuasivo e retorico in senso “naturale” in quanto la retorica – che per suo precipuo “istituto”, descrive, crea e regola il linguaggio persuasivo – deve render reali le immagini con le parole. Ma la retorica deve potersi poggiare su una memoria efficiente che ne permetta il funzionamento: è l’uomo (in quanto essere dotato di immaginazione che supera l’istante, che si perpetua nel tempo, che si fa quindi memoria) a doversi rendere “reale” autopersuadendosi che una divinità gli parli nel linguaggio della natura, non come insieme di suoni della natura “fisica” ma come parola della divinità. La retorica è quindi parte integrante del progetto de La Scienza Nuova, ne è per certi versi un presupposto in quanto la genesi e l’evoluzione della mente umana viene considerata da una prospettiva sia retorica che psicologica e linguistica. Ed è qui che il Nostro marca la differenza con la Retorica del ’400 e del ’500. Egli vuole arrivare a una psicologia e a una genealogia psicoantropologica del pensiero retorico applicata alla storia, cosa aliena dalle intenzioni degli Umanisti e di tutti i retori che li hanno preceduti. Ma, nonostante la grande importanza che riveste nella filosofia vichiana il concetto di memoria, la memoria come soggetto di studio retorico viene liquidata dal Nostro in maniera perentoria e estremamente rapida. Come ho cercato di argomentare fino ad ora, la questione della memoria nell’opera vichiana è diluita o, meglio, soluta, memoria de’ suoi rapsòdi, perché al di lui tempo le lettere volgari non si erano ancor truovate» (G. B. Vico, Principi di Scienza Nuova, cit., p. 52). «Che per necessità di natura, come anco nel libro II si è detto, le prime nazioni parlarono in verso eroico. Nello che è anco da ammirare la provvedenza, che, nel tempo nel quale non si fussero ancor truovati i caratteri della scrittura volgare, le nazioni parlassero frattanto in versi, i quali coi metri e ritmi agevolassero lor la memoria a conservare più facilmente le loro storie famigliari e civili» (Ivi, p. 389). «Vi sono due aurei luoghi nell’Odissea, dove, volendosi acclamar ad alcuno d’aver lui narrato ben un’istoria, si dice averla raccónta da musico e da cantore. Che dovetter esser appunto quelli che furon i suoi rapsòdi, i quali furon uomini volgari, che partitamente conservavano a memoria i libri de’ poemi omerici» (Ivi, p. 392). Si rilegga infine, e sempre come sommaria indicazione, anche la prima parte della citazione del Vico di cui alla nota 14 di questo scritto. 9 Paolo Fabiani nelle ampie argomentazioni sulla mitologia, sulla storia, sulla filologia e sulla psicologia dei popoli pagani. La memoria quindi come “oggetto di studio psicologico” e non come strumento di erudizione o tecnica di apprendimento e tanto meno come strumento per veicolare, argomentare e strutturare dottrine metafisiche, panteistiche (e non raramente esoteriche) come erano soliti architettare molti dei mnemonisti del Rinascimento17. Eppure (o, forse, proprio a causa di ciò – dipende da quale prospettiva teorica si vuol adottare) con Vico l’arte della memoria viene a mancare completamente, egli volutamente e scientemente la ignora; ma perché? Un sapere strutturato nei secoli e specifico della sapienza retorica come può esser stato completamente ignorato da chi sulla retorica e sul sapere storico ha costituito la sua carriera professionale e lasciato in eredità al mondo la sua figura di filosofo? Come mai in uno studioso, che ha fatto della “sapienza poetica” e delle teorie dell’immaginazione il fulcro della sua antropologia filosofica, non si trova la benché minima traccia delle teorie rinascimentali dell’immaginazione e della memoria? Anzi non si trova nessuna teoria dell’immaginazione e della memoria compiutamente strutturata ed esplicitamente formulata, nessun accenno all’arte della memoria come forma di sapere costituito. Di fatto nelle Institutiones oratoriae si liquida la questione con una sola, breve ma inequivocabile, asserzione: De memoria non est ut hic praecepta tradamus: ea enim ingenita virtus est, quae usu conservatur et adaugetur et si quae est ars, quam nullam puto, ea propria est quae dicitur mnemoneutica18. Canonicamente in ambito di studi sulla retorica si è soliti suddividere due generali e generici punti di vista sull’arte della memoria: quello di Cicerone, che era entusiasta di questa disciplina e quello di Quintiliano, molto più scettico. La posizione di Vico tende evidentemente dalla parte di Quintiliano. Pur tuttavia anche lo scettico Quintiliano è ben lungi da relegare la questione della memoria (e dei sussidi didattici e teorici per implementarla) a un ruolo marginale o, addirittura inconsistente, come invece pare faccia Vico19. A mio avviso in Vico la 17 Si pensi, soltanto per fare due esempi a Giordano Bruno e a Giovanni Battista Della Por- ta. 18 G. B. Vico, Institutiones oratoriae, cit., p. 430. Inoltre gli studi sulle mnemotecniche e sulla memoria ai tempi e nei luoghi in cui Vico visse erano molto sviluppati, molto più che in altri luoghi di cultura d’Italia e d’Europa. Non intendo riferirmi soltanto agli illustri precedenti di Giordano Bruno e di Giovanni Battista Della Porta, ma anche, e lo cito soltanto per fare un esempio, a un concittadino contemporaneo del Nostro, tale Bernardo Cavaliero Acugna, che nel 1713 nel suo testo Metodi, regole, consigli ed avvertimenti utilissimi fa un’ampia e approfondita disamina della mnemonica. Oppure, infine, il libro di Ludovico Dolce, Dialogo del modo di accrescere e conservar la memoria, Sessa, Venezia, 1562 (quasi una traduzione letterale, ma con alcune non irrilevanti eccezioni, del testo di Johann Host von Romberch, Congestorium artificiosae memoriae) che per un secolo e oltre rappresentò un testo di riferimento per i docenti di retorica in tutta Italia. Non è quindi in questione la conoscenza della materia che il Vico poteva o meno avere; era un patrimonio condiviso da tutti i professori di retorica al suo tempo e del resto se non avesse avuto una chiara e profonda comprensione del soggetto “mnemotecnica”, non avrebbe potuto lanciarsi in una tesi così radicale. 19 10 Dall’arte dell’immaginazione alla scienza della mente questione della memoria trasmigra, armi e bagagli dalla retorica e dalla teoria dell’argomentazione, alla psicologia della mentalità primitiva e, per suo tramite, alla metafisica della mente tout court. Se per la memoria (e l’immaginazione) Vico non si volta indietro (agli antichi, ai retori e agli Umanisti) non può che guardare in avanti (ai moderni, a chi della memoria e dell’immaginazione aveva fatto oggetto di analisi scientifica e quindi, primi tra tutti i cartesiani con il loro insigne rappresentante Malebranche). Come è stato possibile questo passaggio? La risposta è complessa e rimando al già citato lavoro La filosofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche ma, stringendo il campo a quanto qui di competenza, si trova nella stessa perentoria frase or ora riproposta che di fatto chiude le Institutiones Oratoriae. Considerare la memoria come «qualità innata e che si conserva e si aumenta con l’uso» equivale a considerarla da un punto di vista prettamente psicofisico. Essendo le mnemotecniche rinascimentali parte integrante di dottrine filosofiche platonizzanti e/o panteistiche, negarne ogni validità metafisica e esoterica nonché, al tempo stesso, ridurre la memoria a processo psicofisico significa porsi in un ben preciso punto dello scacchiere metafisico: dalla parte di chi quelle filosofie e dottrine panteistiche e, non raramente, esoteriche le aveva contrastate cioè, principalmente, i cartesiani. Certo non basta un’affermazione, per quanto perentoria, né un’omissione, per quanto importante, a portare Vico dalla parte dei “moderni”. In questo caso però non si tratta di trovare fonti bibliografiche o storiografiche ma semplicemente di avanzare una serie, ben circoscritta e limitata, di considerazioni, spero, razionali. Per Vico l’arte della memoria semplicemente non esiste e gli unici a pensarla così, ai suoi tempi, erano i “novatori”, e tra essi coloro che spiccavano per verve critica coloro che rifiutavano la filosofia e, soprattutto, la fisica aristotelica. Ribadisco che ciò non fa di Vico ancora un cartesiano20, ma sicuramente dà Infine è da rilevare che l’antiporta della Scienza Nuova la famosa Dipintura di Domenico Antonio Vaccaro all’Idea dell’opera è evidentemente un’immagine mnemonica costruita su un modello noto e molto collaudato e che quindi poteva essere adottato soltanto da chi lo sapesse adottare e adattare. Quindi il retore Vico non solo doveva ben conoscere l’arte della memoria ma ce ne ha lasciato anche una plastica raffigurazione nella sua Opera maggiore. Una contraddizione questa (cioè Vico che nega ogni valore alla mnemonica ma poi la utilizza per progettare il frontespizio de La Scienza Nuova) che meriterebbe certo altra e ampia discussione e che mi riservo di trattare in altra sede. 20 Credo che Francesco Botturi abbia ben impostato la questione su come vada inteso il rapporto Vico-Malebranche. Egli si riferisce al diritto ma il valore delle sue affermazioni ritengo possa essere esteso anche all’antropologia: «L’essenziale metafisicità del diritto è espressa da Vico secondo una concettualità che risente con forza dell’influsso malebrancheano. Si direbbe che in questa fase del suo pensiero Vico trovi nel cartesianesimo di Malebranche le formule più adatte per evidenziare la stretta connessione di filosofia e diritto, e in questa l’implicazione dell’assoluto nella regolazione dei rapporti sociali. La difesa del diritto naturale contro il dubbio scettico esalta in Vico la ricerca della condizione ultima di possibilità del diritto stesso, che è identificata nella relazione trascendentale della mente a Dio. […] Il diritto si presenta così agli occhi di Vico come metafisica in actu exercito, espressiva della natura propria della mente umana. L’intelaiatura metafisica del diritto è evidenziata da Vico con terminologia e riferimenti che risentono in profondità della riflessione malebranchiana, riscontrabile non tanto a livello analitico o sistematico quanto come referente attivo ad orientare il pensiero vichiano» (F. Botturi, La sapienza della storia, cit., p. 241). 11 Paolo Fabiani un’indicazione su quale versante egli si ponesse su un tema di cruciale importanza, non soltanto dal punto di vista psicologico ma anche teoretico. Vi è un abbandono totale di tutte quelle strategie che i retori di matrice aristotelica e neoplatonica avevano costruito sulla memoria basandosi sull’immaginazione “materiale”, cioè sull’immaginazione di ciò di cui si aveva percezione o che si sarebbe potuto percepire, ovvero di tutte quelle immagini che meglio si fissavano nella mente. Tali strategie si reggevano sul presupposto che vi fosse un legame naturale tra l’immagine pensata e l’oggetto percepito21. Riportare tutto a una questione di “qualità innata”, cioè completamente interna al soggetto e dichiarare nullo il valore di tutte quelle tecniche che costruivano un ponte (aristotelico) tra le immagini mentali e le cose materiali, equivale ad ammettere che quel ponte (quel legame naturale) non c’è. Solo assumendo una prospettiva soggettivistica (e in senso lato “cartesiana”), si poteva affermare ciò che Vico affermò sulla memoria. Del resto, il concetto di memoria, Vico non lo sviluppa nel suo trattato di arte oratoria, ma nella sua opera di antropologia filosofica, cioè ne La Scienza Nuova. Ciò avviene non in maniera canonica, bensì “diluendo” le analisi sulla memoria all’interno di quelle sulla mentalità primitiva. È nell’analisi dei miti e nella metafisica della mente – e di come essa si sia sviluppata nella storia – che egli ci dà ampie, profonde e illuminanti considerazioni sulla memoria oltre che sull’immaginazione e la fantasia. Questa la maggior difficoltà a trovare un trait d’union tra Vico e Malebranche: le forme stilistiche dei due loro maggiori trattati sono antitetiche, pur affrontando spesso gli stessi ar21 Questo legame causale sarà il principale obiettivo critico de La recherche de la vérité di Malebranche. Ora, con il termine phantasma si indicava, in ambito scolastico, l’immagine “formata” dalla facoltà rappresentativa (la phantasia) che partendo dai dati percettivi ricostruisce nell'animo umano il “simulacro” dell'oggetto esterno. Tale icona concettuale è appunto il phantasma che pur non essendo materiale conserva ancora tutte le qualità sensibili proprie dell'oggetto fisico. Per San Tommaso l’intelletto astrae dal phantasma un concetto più “puro”, la species intelligibilis, attraverso la quale è possibile conoscere effettivamente l'oggetto. Questo processo (che per gli aristotelici è “reale”, nel senso che, a loro dire, con queste procedure la mente arriva ad una qualche forma di verità) per i platonici è sempre stata la via maestra per cadere in errore; anche per questi pensatori la mente umana astrae i concetti dalle rappresentazioni, come descrivono gli aristotelici, soltanto che ritengono quest'operazione mentale priva di ogni valido fondamento. Nella tradizione neoplatonica la fantasia è strettamente correlata all’ingannevolezza dei sensi, all’errore in sede conoscitiva e al peccato in campo morale. A questa corrente di pensiero, come noto, si rifaranno i cartesiani ed anche Vico. Ma Vico “tende” – per così esprimerci – verso il più platonico dei cartesiani proprio perché, ancor più dei platonici medievali e rinascimentali, egli presuppone una prospettiva “soggettivista”, anche e soprattutto sul tema della memoria e della fantasia nei primitivi: ogni legame con la realtà esterna è scisso, troncato. Il bestione vichiano fin da subito, fin dal suo primo pensiero, pone la propria mente come antitetica alla realtà materiale: il suo pensiero può e deve venir spiegato riferendosi esclusivamente alle credenze che esso (pensiero) produce. La realtà materiale è e rimane la stessa tanto per l’animale quanto per il poeta teologo e – in quanto tale – ininfluente in sé, ciò che fa la differenza dall’uno all’altro è l’interpretazione; ma questa è un fatto tutto e soltanto interno alla mente di chi, appunto, pensa. Le arti della memoria invece, pur essendo sempre state strategie eminentemente mentali, avevano come presupposto teorico (spesso, non ben consapevole da parte di chi le adottava) e, ancor più, metafisico proprio un legame tra le immagini e le cose “materiali”. 12 Dall’arte dell’immaginazione alla scienza della mente gomenti e sostenendo a volte medesime teorie, ne dispongono “su carta” le argomentazioni con modalità molto differenti avendo finalità teoretiche e, non raramente, polemiche e critiche anche molto differenti. Malebranche adatta il soggetto alla forma canonica del trattato, al contrario Vico adatta la sua argomentazione al soggetto che va esponendo. Per questo non vi è ne La scienza Nuova un libro sull’immaginazione o sull’intelletto ma, al contrario, sulla metafisica poetica, sulla logica poetica, sulla morale poetica ecc. Malebranche22 nel secondo libro de La ricerca della verità dopo aver fornito al lettore una concisa spiegazione dei rapporti esistenti tra anima e corpo con le seguenti parole: il legame tra spirito e corpo che noi conosciamo si riduce a una corrispondenza naturale e reciproca dei pensieri dell’anima con le tracce del cervello e delle emozioni dell’anima» passa ad analizzare le tre cause del legame tra idee e tracce, cioè a delineare i principi della sua psicofisica. Con queste tre cause egli intende dar ragione non solo della memoria ma anche della percezione23. Della sua argomentazione merita evidenziare alcuni passi: La seconde cause de la liaison des idées avec les traces, c’est l’identité du temps. Car il suffit souvent que nous ayons eû certaines pensées dans le temps qu’il y avoit dans nôtre cerveau quelques nouvelles traces, afin que ces traces ne puissent plus se produire sans que nous ayïons de nouveau ces mêmes pensées24. Qui Malebranche traccia una spiegazione e descrizione in cosa consista quella che gli psicologi scientifici contemporanei definiscono memoria episodica. Non a caso infatti poco dopo discutendo dei legami reciproci tra le tracce egli afferma: Si un homme par exemple se trouve dans quelque cérémonie publique, s’il en remarque toutes les circonstances, & toutes les principales personnes qui y assistent, le temps, le lieu, le jour & toutes les autres particularitez, il suffira qu’il se souvienne du 22 Anche la bibliografia su Malebranche è oggi assai ampia. In prima approssimazione rimando ai classici lavori di: F. Alquié, Le Cartésianisme de Malebranche, Paris, Vrin, 1974; V. Delbos, Etude sur la philosophie de Malebranche, Paris, 1924; M. Gueroult, Étendue et psychologie chez Malebranche, Paris, Vrin, 1939; M. Gueroult, Malebranche, Paris, Aubier, 1955-1959; M. MerleauPonty, L’union de l’ame et du corps chez Malebranche, Biran et Bergson, Paris, Vrin, 1978. Si consulti inoltre il recente testo di R. Carbone, Infini et science de l’homme. L’horizon et les paysages de l’anthropologie chez Malebranche, Paris-Napoli, Vrin-La Città del sole, 2007. 23 «Il y a trois causes fort considérables de la liaison des idées avec les traces. La premiére qui les autres supposent est la nature, ou la volonté constante, & immuable du Créateur. Il y a par exemple une liaison naturelle, & qui ne dépend point de nôtre volonté, entre les traces que produisent un arbre ou une montagne que nous voyons, & les idées d’arbre ou de montagne». N. Malebranche, De la recherche de la vérité, in Id., Œuvres complétes, a cura di A. Robinet, 23 voll., Paris, Vrin, 1958-1990, vol. I, pp. 216-217. «Il faut bien remarquer ici que la liaison des idées, qui nous représent des choses spirituelles distinguées de nous avec les traces de nôtre cerveau, n’est point naturelle & ne le peut être; & par conséquent qu’elle est, ou qu’elle peut être différente dans tous les hommes; puisqu’elle n’a point d’autre cause que leur volonté & l’identité du temps» (Ivi, p. 219). 24 Ivi, p. 217. 13 Paolo Fabiani lieu, ou même d’une autre circostance moins remarquable de la cérémonie pour se représenter toutes les autres25. Queste affermazioni si prestano a una varietà di possibili interessanti osservazioni ma, restando in tema, danno soprattutto una chiara spiegazione di come un episodio, rappresentato e quindi pensato, consti di molti elementi tutti collegati tra loro e come la mente tenda naturalmente a recuperare l’insieme da una delle sue parti, da un particolare. La spiegazione or ora proposta da Malebranche sull’identità del tempo si presta molto bene a descrivere la scena descritta ne La scienza nuova che ho proposto a epigrafe di questo studio. Ma nessun trattato di retorica e di mnemonica del Rinascimento potrebbe fare altrettanto. Ancor più: Malebranche nel passo su citato pare quasi voler presentare una parafrasi dell’episodio occorso a Simonide tramandatoci tra gli altri da Cicerone, sulla nascita dell’arte della memoria26. Ma l’identità del tempo come principio fondamentale della psicofisiologia malebrancheana pone un altro straordinario punto di collegamento con la teoria vichana in questo passo: Si l’idée de Dieu s’est présentée à mon esprit dans le même temps que mon cerveau a été frappé de la vue de ces trois caractères “iah”, ou du son de ce même mot; il suffira que les traces que ces caractères, ou leur son, auront produites se réveillent afin que je pense à Dieu; & je ne pourrai penser à Dieu qu’il ne se produise dans mon cerveau quelques traces confuses des caractères, ou des sons qui auront accompagné les pensées que j’aurai eues de Dieu, car le cerveau n’étant jamais sans traces, il a toujours celles qui ont quelque rapport à ce que nous pensons, quoique souvent ces traces soient fort imparfaites, & fort confuses27. Ne La filosofia dell’immaginazione in Vico e Malebranche ho analizzato a lungo questi e altri passi della Recherche e le possibili implicazioni per un’interpretazione de La scienza Nuova e i palesi parallelismi con la filosofia di Vico nel suo insieme. Rimando a quella lettura non potendo qui ripetermi, mi limito adesso a osservare che questo principio (l’identità del tempo) è per Malebranche alla base dei processi psicologici che sottostanno alla causalità naturale e dell’ido25 Ivi, p. 222. «Si racconta che una volta Simonide stava cenando a Crannone, in Tessaglia, a casa di Scopa, uomo ricco e nobile. Egli aveva cantato un’ode che aveva composto in suo onore, in cui aveva inserito molti riferimenti a Castore e Polluce, allo scopo di abbellirla, come fanno i poeti. Scopa, allora, con eccessivo e gretto risentimento, gli disse che per quel componimento l’avrebbe ricompensato con metà della somma pattuita: il resto poteva chiederlo, se lo credeva opportuno, ai suoi Tindaridi, che aveva lodato tanto quanto lui. Poco dopo, Simonide fu chiamato fuori: due giovani erano alla porta e lo chiamavano con grande insistenza. Egli si alzò, uscì, ma non vide nessuno. Nel frattempo, la sala in cui Scopa banchettava crollò, ed egli stesso morì con i suoi parenti sotto le macerie. Quando i congiunti vollero seppellirli, non li poterono riconoscere in alcun modo, cosi maciullati; Simonide allora li identificò uno per uno per la sepoltura perché ricordava la posizione che ognuno di loro occupava durante il banchetto. Stimolato da questo episodio, egli capi che l’ordine era l’elemento fondamentale per illuminare la memoria» (M. T. Cicerone, De Oratore, Milano, Rizzoli, 1994, II, LXXXVI, pp. 352-354). 27 N. Malebranche, De la recherche de la vérité, cit., pp. 217-218. 26 14 Dall’arte dell’immaginazione alla scienza della mente latria – e può rappresentare un criterio interpretativo anche per riconsiderare, pur mantenendone l’originalità, l’antropologia vichiana. Ma è anche un grande principio di memoria, in realtà è il precursore di quello che secoli dopo diverrà il principio associazionistico che sta alla base della teoria dei riflessi condizionati, sia del condizionamento classico che di quello operante28. In definitiva la psicofisica malebrancheana si fonda su tre principi. Il primo principio: la volontà del Creatore (ovvero che abbiamo una percezione del mondo così come abbiamo e non un’altra); il secondo principio: l’identità del tempo (che consente di collegare la nostra percezione del mondo a particolari eventi e questi a particolari idee prodotte dalla nostra mente in accordo con la nostra volontà). Infine, il terzo principio, cioè la volontà succube delle passioni che tende a fissare determinate idee a determinate rappresentazioni del mondo per come viene percepito. Ecco, questi tre elementi – sotto altra forma – si ritrovano alla base della teoria dei miti di Vico. Primo: un pensiero e un linguaggio divino in cui l’idea è associata naturalmente (tramite la natura della psiche umana) all’evento atmosferico. Secondo: il linguaggio e il pensiero eroico in cui – per causalità naturale – il legame stabilito dalla natura (tramite il fissarsi delle paure in una rappresentazione e in cui questa rappresentazione – il tuono e il fulmine – sono uguali a se stessi, sono cioè Giove) si arricchisce di una prima forma di linguaggio onomatopeico, un linguaggio cioè spiegabile perfettamente attraverso il principio di identità del tempo. Infine la volontà tramite cui gli uomini per convenzione si mettono d’accordo sul significato dei segni e delle parole, creano cioè i linguaggi convenzionali. In definitiva: si ritrova qui in sintesi (sebbene mascherato dalla differente scelta stilistica e dottrinale) tutto il quadro vichiano della cosmogonia mitologica. Ne La Recherche al capitolo sulla memoria segue quello sulle abitudini, e non a caso. Per Malebranche infatti la memoria (intesa in questo caso non come processo psicofisico inconsapevole, ma come attività intellettuale volontaria) non è altro che l’abitudine applicata all’immaginazione, una conclusione assai simile a quella a cui giunge Vico alla fine delle Institutiones Oratoriae cioè «una qualità innata e che si conserva e si aumenta con l’uso». Una conclusione che nessun retore o studioso di oratoria dell’Umanesimo e del Rinascimento poteva in nessun caso condividere, almeno in questi termini. I pochi esempi che ho fatto non possono certo giustificare a livello critico e storiografico un’adesione – in senso stretto – di Vico al cartesianesimo, ma possono essere considerati come proficui spunti di riflessione per una diversa collocazione teoretica non solo della filosofia ma anche della 28 In realtà gli studi sui riflessi condizionati e sui tempi di reazione prendono in considerazioni anche e non per ultima la discrepanza temporali tra lo stimolo e la reazione ma, ovviamente, non è questo il punto: le riflessioni di Malebranche, che non poteva avere un laboratorio di psicologia sperimentale, restano anticipatorie delle scoperte dei secoli successivi. Queste considerazioni restano comunque marginali; ciò che non reputo marginale invece è la posizione di Malebranche all’interno della storia della psicologia. La psicologia di Malebranche è da sempre uno dei grandi filoni di ricerca del suo pensiero; purtroppo ci si è quasi sempre limitati a una retrospettiva più “storica” che non “psicologica”. Reputo invece che si potrebbero fare rilievi di notevole importanza comparando le idee dell’Oratoriano con le contemporanee teorie psicologiche, soprattutto di psicologia cognitiva. 15 Paolo Fabiani retorica vichiana. Comunque la si voglia pensare, è un fatto che l’arte della memoria nell’opera de professore di retorica Vico non c’è più, è sparita all’interno dell’interpretazione psicologica dei miti, dell’antropologia della mentalità, dell’analisi filosofica della mente come produttrice di rappresentazioni e conservatrice di ricordi. 16 Paolo Fabiani Università di Firenze pfabiani@alice.it – Dall’arte dell’immaginazione alla scienza della mente. Alcune considerazioni sul concetto di memoria in Malebranche e Vico Citation standard: FABIANI, Paolo. Dall’arte dell’immaginazione alla scienza della mente. Alcune considerazioni sul concetto di memoria in Malebranche e Vico. Laboratorio dell’ISPF. 2017, vol. XIV (8). DOI: 10.12862/Lab17LFBP. Online: 23.06.2017 Full issue online: 20.12.2017 ABSTRACT From the Art of the Imagination to the Science of the Mind. Some Considerations on the Concept of Memory in Malebranche and Vico. The topic of the psychology of memory is rather marginal in the contemporary debate about the imagination in early modern philosophy, despite the evident fact that without memory imagining is impossible. This question moves from the rhetoric domain to the “scientific” analysis of the mind, and occurs both in Malebranche and Vico, but via different paths in each of the two thinkers: Vico studies the mythological thought, whereas Malebranche builds a new psychology and a new critique of the Aristotelian mentality, that is to say the mentality of every man who is not enlightened by divine grace and who has not read and understood Descartes. But they both share the rejection of the art of memory – which was the most thorough knowledge about memory until then – and more generally they formulate many congruent analyzes on the subject of memory. KEYWORDS N. Malebranche; G. Vico; Imagination; Memory; Art of memory (mnemonics) SOMMARIO L’argomento della psicologia della memoria è piuttosto marginale nel dibattito contemporaneo circa l’immaginazione nella filosofia moderna nonostante l’evidenza che senza la memoria immaginare diventa impossibile. Nel ’600 la questione si sposta dalla retorica all’analisi scientifica della mente, il che è constatabile sia nel pensiero di Malebranche che in quello di Vico ma avviene attraverso diversi percorsi teoretici nei due pensatori: Vico esplora la mente studiando il pensiero mitologico, mentre Malebranche costruisce una nuova psicologia e una nuova critica della mentalità aristotelica, cioè la mentalità di ogni uomo non illuminato dalla Grazia divina e che non ha letto e compreso Cartesio. Entrambi però rifiutarono l’arte della memoria – che era la più completa e approfondita conoscenza teorica sulla memoria fino a quel momento – e, più in generale, formularono alcune analisi psico-filosofiche tra loro congruenti sulla memoria. PAROLE CHIAVE Malebranche; Vico; Immaginazione; Memoria; Arte della memoria (mnemonica) Laboratorio dell’ISPF ISSN 1824-9817 www.ispf-lab.cnr.it