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Napoli, la normalità dell'emergenza

Terza puntata della grande inchiesta sull’Italia malata

Il Museo di Capodimonte a Napoli

Napoli. Il più vasto e straordinario centro antico d’Europa appare una sterminata, gigantesca rovina. Napoli è una «Pompei che non è mai stata sepolta», scriveva Curzio Malaparte. Nei vecchi quartieri, lungo i Decumani, la storia millenaria della città emerge tra catacombe, monumenti, chiese di ogni epoca, capolavori sconosciuti, palazzi disfatti. Città conventuale e monastica unica al mondo, la sua maggiore ricchezza è nelle innumerevoli chiese, cappelle, chiostri, oratori con volte affrescate, archi, cupole, tesori d’arte incredibili accumulati nei secoli. Quasi tutto in abbandono tra vicoli e case sfregiati da scritte vandaliche, depositi di rifiuti e impalcature che salvano mura cadenti dopo il terremoto del 1980. Fregi e arredi preziosi: trafugati. A Napoli niente è normale, l’ordinario è straordinario. Ogni problema diventa emergenza, qui anche la contraddizione è regola.
Nascosto da facciate scrostate, su strade laterali, qualcosa è stato restaurato e aperto negli ultimi anni, chiese e monumenti «inaugurati» di recente, in occasione del Maggio dei Monumenti. Intorno è una Napoli in fermento, fatta di associazioni e cooperative di giovani che «ricostruiscono» e vivono di quell’arte di nuovo visitabile. Salvare il centro antico significa salvare Napoli, la sua enorme vitalità.
«Se avessi la bacchetta magica, dice Fabrizio Vona, soprintendente al Polo Museale di Napoli, risolverei il problema del centro storico. È la città delle 1.070 chiese: 200 chiuse, spogliate, distrutte. Colpa anche dei soldi non spesi. La Campania usa solo il 6% dei fondi che l’Europa le ha destinato: il 94% è perduto. Un delitto. Così Santa Maria della Sapienza, Santa Maria di Costantinopoli, San Giovanni Battista delle Monache e tante altre chiese sono in rovina. Come Sant’Agostino alla Zecca, fondata nel Medioevo, una fantastica sala angioina, chiostri cinquecenteschi, meravigliose cappelle». Per Antonio Pariante, presidente dell’Associazione Santa Maria di Portosalvo che da anni difende il centro antico, è urgente rispondere a molti perché «proprio Sant’Agostino alla Zecca, racconta, è in restauro da 30 anni. Sono stati spesi 2 milioni e resta chiusa, cadono calcinacci sui passanti».

Pioggia di milioni
Per il 2012 si aspetta la svolta: sono arrivati centinaia di milioni dall’Europa, dallo Stato, dalle istituzioni locali, qualcosa dai privati. I due finanziamenti maggiori: 70 milioni del Cipe per il rilancio dei musei. Per Napoli 7 milioni al Museo Archeologico, 18 a Palazzo Reale. Ma soprattutto i 100 milioni (in origine erano 200) di fondi europei per il Grande Progetto «Centro Storico di Napoli, valorizzazione del Sito Unesco». L’Unesco (il centro di Napoli è Patrimonio dell’Umanità dal 1995) premeva da anni. Adesso il tempo stringe, servono bandi e cantieri: i soldi devono essere spesi entro il 2015, pena la perdita. Erano bloccati dai tagli di Tremonti. Altri 173 milioni andranno alla metropolitana, 83 alla Mostra d’Oltremare dove sarà coperta con un tetto l’arena Flegrea da 6mila posti.

Tentativi di rinascita
Per il Maggio dei Monumenti sono stati aperti per la prima volta complessi importanti, come quello di San Domenico Maggiore, in restauro da 15 anni (lavori finiti nel 2006, in attesa di una destinazione museale). Il direttore regionale Gregorio Angelini progetta un Museo della musica innovativo collegato al Conservatorio. Antonella Di Nocera, assessore alla Cultura, rivendica il ruolo del Comune: «San Domenico è un simbolo. Appartiene al Comune e, senza aspettare il museo, con la Soprintendenza abbiamo aperto subito il complesso. Abbiamo oltre 300 visitatori al giorno in un sito vuoto ma meraviglioso».
Aperta a giugno la storica Farmacia degli Incurabili, capolavoro barocco del ’700, con arredi e maioliche intatte. Riapertura (provvisoria) dopo 14 anni del Museo civico Filangieri e di parte del Parco di Villa Floridiana. San Giovanni Maggiore a Pignatelli, restaurato, ferisce per il suo degrado. «È il frutto di un’incuria pluridecennale, dice Francesco Caglioti, ordinario di Storia dell’Arte all’Università Federico II. Dopo anni di furti e abbandono, ora abbiamo un restauro volenteroso, costato dieci, cento volte più di una normale manutenzione. Risultato: San Giovanni Maggiore è un guscio semivuoto, manca il 90% degli arredi, rubati di recente. Negli ultimi 30 anni, racconto ai miei studenti, Napoli ha distrutto più di quanto abbia fatto nei 5 secoli precedenti. Tante le cause: l’assottigliarsi del clero ma anche le responsabilità della politica e dei funzionari dello Stato. Per anni la Soprintendenza ha coltivato il mito delle grandi mostre-vetrina: promettevano il riscatto della città e nascondevano lo sfacelo».
«I 100 milioni per il Centro Storico, avvieranno un circolo virtuoso», afferma l’attivissimo neosoprintendente Vona: d’accordo con il cardinale Sepe, attua una strategia a costo zero per aprire le chiese chiuse. «Pensare soltanto ai musei vuol dire rinunciare al nostro futuro». E spiega: «Non abbiamo soldi, per le chiese ci affidiamo a piccoli aiuti e all’azione delle cooperative. Aprire le chiese vuol dire mostrare alla città, un po’ anestetizzata, qual è il livello della sua rovina. Vorrei risvegliare la capacità di indignarsi dei napoletani. Per troppo tempo la Soprintendenza ha ignorato il problema». Ma dietro i portoni chiusi di tanti edifici capolavoro restano i saccheggi. Caglioti è stato tra i primi a denunciare i furti alla biblioteca dei Girolamini, ultimo scandalo politico-giudiziario della città (cfr. articolo a lato). Soltanto alcuni complessi sono ben conservati grazie a poche suore, ormai anziane. Caglioti cita San Gregorio Armeno, Santa Maria di Monteverginella, Santa Maria Regina Coeli. Ma denuncia: «La chiesa di Gesù e Maria, riaperta da poche settimane, è apparsa letteralmente sventrata: via i pavimenti, i paliotti d’altare, Isabella de Guevara pende nel vuoto senza cornice. Ovunque sono stati rubati materiali preziosi che ora decorano le ville dei camorristi. Non c’è prevenzione né sistemi d’allarme».
Il presidente di Italia Nostra di Napoli, Guido Donatone, allunga l’elenco: la chiesa paleocristiana di Santa Maria in Cosmedin, chiusa e dove è sparito pure l’altare, Sant’Aspreno, barocca, vandalizzata di recente, e San Biagio ai Taffettanari, aperta solo domenica, dove gli abusivi che abitano la canonica hanno trasformato il tetto in solarium per sé e gli amici.
I 100 milioni per il centro antico andranno al restauro di circa 25 tra chiese, cappelle, palazzi, monasteri, conventi (62,5 milioni), a riqualificare spazi urbani per 30 milioni (se ne occuperà il Comune), 6,5 milioni alle aree archeologiche e uno al sistema urbano del centro antico. Tra gli interventi più cospicui, il complesso dei Gerolamini (5 milioni), Santa Maria della Pace (6), Ss. Severino e Sossio (5,2), San Paolo Maggiore (4), l’ospedale degli Incurabili (3,5), Castel Capuano (5).
Per Castel Capuano, già sede del Tribunale, molte le iniziative. Tra Comune e Regione è nata la Fondazione Castel Capuano: l’idea è di farne un Museo delle Regole, o della legalità. Alla riscoperta del castello ha partecipato anche la storica Fondazione Napoli 99 creata da Mirella Barracco. «Da vent’anni abbiamo creato in città un importante strumento di educazione attiva esteso poi a tutta Italia: “La scuola adotta un monumento”. Da due anni Castel Capuano è adottato da un istituto tecnico del rione Scampia. La conoscenza delle bellezze e della storia del territorio educa anche alla legalità».

Cooperative e associazioni
In città si sviluppa un modello virtuoso che crea contagio: dal restauro e riapertura di chiese e monumenti nasce il lavoro per una quantità di associazioni e cooperative di giovani che gestiscono i beni recuperati. Clamoroso il caso del rione Sanità, tra i più depressi. Vero motore del cambiamento è don Antonio Loffredo, da dieci anni parroco di Santa Maria della Sanità, magnifico edificio barocco. Don Antonio ha restaurato prima le catacombe di San Gaudioso, proprio sotto la sua chiesa, con i suoi ragazzi che le gestiscono. Nel 2009 la Curia gli ha affidato quelle importantissime di San Gennaro, abbandonate da 40 anni. Oggi le spettacolari arcate scavate nel tufo, con affreschi paleocristiani, sono visitabili, gestite dalla cooperativa La Paranza. Intorno, altre cooperative: elettricisti, fabbri. Tutto grazie anche all’aiuto di Ernesto Albanese, mecenate e manager di successo che non vive più a Napoli. L’idea è il riscatto del rione Sanità: lì, nel cortile di casa, suo padre è stato ucciso in una rapina nel 2005. Albanese punta al riscatto del rione e della città. La sua associazione L’Altra Napoli onlus in pochi anni ha raccolto 4,5 milioni di euro per avviare i progetti di don Antonio e altre iniziative in siti di proprietà della Curia. Oggi la onlus di Albanese ha un migliaio di soci, manager e professionisti, tutti napoletani «che giudicano impossibile abbandonare al suo destino la città di fronte all’insipienza dei suoi amministratori».

Il ruolo del Comune
Prima di diventare assessore alla Cultura del Comune nella giunta De Magistris, Antonella Di Nocera è stata per anni in un’associazione di periferia a promuovere la cultura con il cinema e l’educazione. Oggi opera perché il modello del rione Sanità venga esteso a tutta Napoli: «Il Comune possiede molte chiese, giardini, cortili, teatri, piazze, edifici abbandonati. Dobbiamo farli rivivere e collegarli con le tante cooperative, associazioni, gruppi, composti spesso di veri talenti. Un esempio: abbiamo teatri vuoti in molti quartieri. Possiamo abbinarli a cooperative teatrali. A Forcella come a San Giovanni a Teduccio, ci sono bravi attori che non sanno dove recitare». Di Nocera è preoccupata soprattutto per la scarsa collaborazione tra istituzioni. «C’è uno scollamento grave: da vent’anni manca la comunicazione, non si decide insieme. Mi scontro con un “non ordine” che è sì caratteristico di Napoli, ma qui siamo davvero all’eccesso». Per le chiese sta creando un comitato con Comune, Curia, Fec (Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno), Soprintendenze e Polo Museale. «La Curia ha un ruolo fondamentale, ma non riesce a gestire i suoi beni. Dal ’94, 33 chiese restano aperte soltanto perché c’è il personale del Comune».
A volte è scontro tra istituzioni. Accade tra Regione e Comune: «Loro hanno i soldi, dice Di Nocera, noi gli spazi, le produzioni di eventi, la gestione della città. Per mesi avevamo parlato di programmi comuni, ma lo scorso novembre una delibera regionale ha assegnato tutto il denaro della politica culturale per Napoli, 15 milioni di euro, alla Fondazione Campania Festival. La fondazione è presieduta dall’assessore regionale alla Cultura, Caterina Miraglia, che può decidere direttamente a chi dare i fondi e per quali iniziative, senza gare a evidenza pubblica. Il Comune è eliminato da ogni decisione».

I guai dei musei
In questo panorama non idilliaco, vivono anche i musei dello Stato. I due maggiori, Capodimonte e l’Archeologico hanno seguito a lungo una politica di grandi, costose mostre, spesso di arte contemporanea. Adesso il soprintendente Vona è preoccupato per l’isolamento di Capodimonte, una delle più importanti pinacoteche del mondo, visitata da appena 100mila persone all’anno. «Dobbiamo rinnovare la didattica, il museo deve prenderti per mano e farti capire. Oggi la gente ha paura di entrare. L’era delle grandi mostre è finita. Un museo straordinario come Capodimonte non ne ha bisogno. Il nostro motto dovrebbe essere: “mostrizziamo” i musei, trasformiamo in mostre i nostri musei». Ma Vona deve fare i conti con una drammatica carenza di fondi. Dei 2 Poli archeologici italiani e dei 4 Poli museali con autonomia amministrativa, quello napoletano è il più povero. «Fino al 2009 avevamo circa 8 milioni all’anno perché c’era una compensazione con i Poli più ricchi. Dal 2010 siamo soli: mancano i contributi delle fondazioni e quelli privati. Piccoli aiuti dal Banco di Napoli e dagli Amici di Capodimonte, associazione benemerita: pochi soldi ma ci porta il sostegno della città. Abbiamo deciso di adottare una politica di “concessioni": affittiamo i saloni più prestigiosi di Capodimonte, il refettorio di San Martino, il loggiato di Villa Pignatelli per convegni e cerimonie, ma la somma annuale resta insufficiente. Per i nostri 5 musei abbiamo 3,35 milioni di euro in tutto: manutenzione, pulizia, mostre, restauri. Solo le utenze (acqua, luce, telefono) si portano via 1,8 milioni, più di metà del totale. La pulizia a Capodimonte è ridotta a 3 persone per 6 ore al giorno. In pratica, si puliscono i bagni», conclude Vona.
Il Museo Archeologico sta meglio, grazie ai 300mila turisti che lo visitano ogni anno. Ma la direttrice Valeria Sampaolo sottolinea che gli ingressi diminuiscono e ci vorrebbe una «comunicazione» forte, una migliore accessibilità. Spiega che i croceristi vanno a Pompei e trascurano il museo impauriti anche da furti e aggressioni. E restano i vecchi problemi: «L’ala al piano terra chiusa da 30 anni e restauri che non finiscono mai; si aspetta la riapertura della collezione egizia ed epigrafica, manca l’impianto di ventilazione. Il tempio di Iside è pronto ma chiuso, manca il personale. Sono fermi l’allestimento della sezione dei popoli non greci della Campania antica, la risistemazione delle collezioni pompeiane e il completamento del braccio nuovo con caffetteria  e bookshop». I 7 milioni dei fondi europei dovrebbero migliorare la situazione, ma Sampaolo sogna un’isola pedonale intorno al museo e il collegamento diretto con la metropolitana: c’è ma resta sbarrato per ragioni di sicurezza. Intanto il sindaco Luigi de Magistris è riuscito in un’ operazione eroica: il centro storico è diventato «zona a traffico limitato». Perfino l’intoccabile via Caracciolo è zona pedonale.

Il contemporaneo
Il questo mare di contraddizioni, rimane in ombra l’idea cardine per la cultura lanciata dall’amministrazione Bassolino: Napoli città dell’Arte contemporanea. Restano le stazioni della metropolitana progettate e arredate da artisti contemporanei (l’ultima con il mosaico di William Kentridge), una sezione di Capodimonte (appena arricchita da un candelabro di Ontani), il ricordo di importanti mostre, il Pan-Palazzo delle Arti Napoli, mai diventato museo, che il Comune sta usando come centro multimediale. In bilico il museo più importante, il Madre, fantasma di se stesso, con una collezione ridotta e biglietto a metà prezzo: i prestatori privati, che avevano concesso 80 opere, le hanno ritirate dopo lo scontro tra Eduardo Cicelyn, fondatore e direttore del museo e la nuova Giunta regionale. Conclusione: via Cicelyn, nuovo statuto per la Fondazione Donnaregina che gestisce il museo, nuovo presidente, Pierpaolo Forte, bando per il futuro direttore, nuovo staff, nuovi progetti da estendere al territorio campano, collaborazione con la fondazione Morra Greco. Intanto il budget del Madre è passato da 2,5 milioni a 1. Se la Regione non rifinanzia la Fondazione Donnaregina, si chiude.

Il Forum
Un sogno a rischio incubo è il Forum delle Culture, che nel 2013 dovrebbe accendere la città di mille eventi, spettacoli, mostre. Ma il ritardo è enorme: mancano solo nove mesi. Il «format» è stato comprato da una società di Barcellona, sembra per qualche milione di euro. A novembre 2011 la Regione crea un Comitato scientifico e una Fondazione. Direttore generale del Forum diventa Francesco Caruso, ex ambasciatore che lavora con l’Unesco e insegna a Parigi, dove vive. Lascia tutto e prende casa a Napoli. La città si anima di progetti. A febbraio De Magistris annulla tutto: la fondazione viene commissariata, pare abbia 5 milioni di debiti, il direttore Caruso si dimette. Si riparte da zero, tutto è nelle mani del sindaco che non dice come ma assicura: il Forum si farà. Intanto lo Stato ha confermato che non finanzierà il progetto: tutto da realizzare con i 15 milioni della Regione.

L’eccellenza del San Carlo
L’eccellenza di Napoli si chiama Teatro San Carlo. Gravato di debiti ma ormai uscito dalla crisi, ha ora un’attività di alto profilo: «Affianchiamo alla grande tradizione del melodramma una stagione “educational”, dice la soprintendente Rosanna Purchia, che coinvolge ogni anno 50mila studenti di ogni scuola. All’Università Federico II è nata anche una radio». Negli spazi del San Carlo, collegato a Palazzo Reale è nato il Museo Memus, «Memoria e Musica». «Non abbiamo mai avuto un vero archivio storico del San Carlo, spiega Rosanna Purchia, ne creiamo uno perché recuperi la nostra memoria, collegata a biblioteche e archivi. Memus è uno spazio vivo di incontri, approfondimenti, iniziative, visite guidate». Accanto alla stagione teatrale (14 produzioni, 240 spettacoli) il San Carlo si estende in periferia, a Vigliena, nell’ex fabbrica Cirio di San Giovanni a Teduccio. «È diventato il nostro laboratorio artistico, un’eccellenza artigianale: design, costumi, scene, con tanti giovani talenti coinvolti. Non dimentichiamo le difficoltà di Napoli, coltiviamo le incredibili risorse della città».       © Riproduzione riservata

Puntate precedenti:
Bari, città senza musei
Firenze, si naviga a vista

di Dai nostri inviati Edek Osser e Tina Lepri, da Il Giornale dell'Arte numero 322, luglio 2012


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