POLITICA
20/03/2020 13:45 CET | Aggiornato 20/03/2020 16:05 CET

"Chiudete tutto, anche le fabbriche". Intervista a Giorgio Gori

"Ormai gli anziani muoiono in casa". Il sindaco di Bergamo si appella al Governo e ammette: "All'inizio dell'epidemia abbiamo fatto degli errori di sottovalutazione"

Emanuele Cremaschi via Getty Images
MILAN, ITALY - JANUARY 21 Giorgio Gori attends the opening of the headquarter of his political campaign on January 21, 2018 in Milan, Italy. Gori, a member of the italian Partito Democratico (Democratic Party) and current mayor of Bergamo, is running as centre-left candidate to the presidency of Lombardy region. The Italian General Election takes place on March 4th 2018. (Photo by Emanuele Cremaschi/Getty Images)

Sindaco Gori, inevitabile, come prima cosa, partire dalle immagini dei carri militari andati a prendere i corpi a Bergamo. Una fila interminabile.

È un’immagine che più ha scosso le sensibilità: la nostra, ma anche quella di tante persone lontane. Mi pare anche di chi ha responsabilità di governo. È come se l’Italia avesse di colpo realizzato cosa sta davvero succedendo in questa provincia, quello che andiamo raccontando da settimane.

Ci racconti la situazione di queste ore. Non c’è più spazio neanche nel forno crematorio, che lavora 24 ore al giorno, giusto?

Abbiamo dovuto chiedere il supporto di altri impianti crematori, in altri città, che ci stanno aiutando.

Neanche nelle camere mortuarie mi pare. Non voglio essere macabro, sono elementi di una drammatica cronaca.

È la realtà di questi giorni terribili. In cui moltissime famiglie si sono ritrovate faccia a faccia con la morte.

Qual è, al momento, la situazione negli ospedali?

È allo stremo, aldilà di quanto si possa immaginare. In Lombardia e a Bergamo abbiamo un ottimo sistema sanitario, forse il migliore del nostro Paese. Agli ospedali pubblici si sono affiancati anche quelli privati. Si sono moltiplicati i posti letto, inventati nuovi spazi per le cure intensive. Eppure non basta. Le persone che avrebbero bisogno di essere ricoverate e curate sono molte di più.

Fece molto discutere una sua frase sui medici chiamati a operare in condizioni estreme, tali da metterli di fronte alla scelta sul chi salvare. In fondo anche Fontana ha detto la stessa cosa: “Se va avanti così non potremo curare tutti”. Si sta arrivando a quello che diceva lei?

Ci siamo arrivati da un pezzo. Quando ho parlato della dolorosa scelta di quei medici parlavo di fatti di cui ero assolutamente certo.

Ci sono anziani che muoiono in casa, nei conventi, nei monasteri che non riescono neanche a salire sull’ambulanza. Neanche arrivano negli ospedali. Conferma?

È quello che sta accedendo. In questa provincia il numero dei decessi a causa del virus è di gran lunga superiore a quello delle statistiche ufficiali. Molti malati anziani muoiono di polmonite a casa loro, o nelle case di riposo, senza che nessuno abbia fatto loro un tampone, né prima né dopo il decesso. Ho chiamato una dozzina di sindaci, per farmi un’idea: in quei comuni il numero dei decessi attribuibili all’epidemia è all’incirca quattro volte quello ufficiale.

Sapeva che un’azienda di Brescia ha mandato mezzo milione di tamponi negli Stati Uniti, e sarebbero invece bastati per tutto il Nord? È davvero una cosa clamorosa.

Non mi pare che in Italia scarseggino i dispositivi per eseguire i tamponi: mancano semmai i tecnici per fare i prelievi, i laboratori per analizzarli, se è vero che già oggi ci vogliono giorni per avere i risultati.

Ma lei è favorevole al cosiddetto “modello coreano”, di tamponi a tappeto?

Non so dire se oggi, visto il livello diffusione dell’epidemia in questa regione, abbia senso avviare tamponi di massa: ne andrebbero però fatti a decine di migliaia, forse di più. E ho l’impressione che - semplicemente - non si sia in condizione di farlo.

Non è il momento delle polemiche ma è inevitabile che, in queste situazioni, ci si chieda se è solo un castigo divino o se ci sono degli errori umani. Si può dire che c’è una falla nella Sanità lombarda, che non riesce ad assicurare servizi a tutti?

La sanità lombarda, ripeto, è tra le migliori di questo Paese. Quella bergamasca è al primo posto nella classifica del Sole 24 Ore. Ma l’impatto di quello che sta succedendo travolge qualunque difesa. Negli ospedali ci sono medici e infermieri che fanno miracoli, la medicina di territorio è a sua volta in prima linea, ma non basta. Gli operatori sanitari si ammalano, ci sono continue defezioni dovute al virus. La verità è che vengono al pettine gli errori fatti negli ultimi anni, i mancati adeguamenti dei bilanci della sanità – mentre si buttavano decine di miliardi su altri fronti – le strozzature del sistema formativo dei medici, dai numeri chiusi alle scuole di specialità per pochi. E anche se non li avessimo fatti, questi errori, probabilmente saremmo lo stesso in difficoltà.

Il Veneto che è un modello che, a differenza di quello lombardo, ha meno presenza del privato funziona meglio, perché funziona meglio la prevenzione. Si può dire?

Non credo. Qui i privati stanno aiutando. Tantissimo. L’Humanitas Gavazzeni è praticamente un ospedale per soli pazienti Covid. La verità è che il Veneto ha avuto un solo focolaio, a Vo’, ed è stato ben circoscritto. La Lombardia ne ha avuti due, a Codogno e in Val Seriana, e sul secondo non si è intervenuti per tempo.

A fine febbraio, quando c’era già la zona rossa a Codogno e i primi contagi in val Seriana lei non invocò la zona rossa. Perché?

Io sono stato tra quelli che l’ha chiesta, per giorni, e anche con forza. Qualche giorno fa è emerso che all’ospedale Fenaroli è andata come all’ospedale di Codogno. Polmoniti in crescita già a gennaio, forse addirittura a dicembre, non riconosciute per tempo come manifestazioni del virus – del resto allora non era forse neanche possibile -  trattate come mutazioni del ceppo annuale dell’influenza. In mezzo ai medici, agli infermieri, agli altri pazienti. Si sono infettati tutti. Bisognava chiudere, come a Codogno, come ho chiesto anche io, e invece non si è fatto. Non mi chieda perché, non lo so. Non era facile, non era campagna come a Lodi, c’erano un sacco di imprese, una zona molto più urbanizzata. Hanno mandato l’esercito a fare i sopralluoghi ma alla fine non l’hanno chiusa. E a quel punto era forse già troppo tardi.

Lei, un po’ come faceva Sala con “Milano non si ferma”, era della linea “Bergamo non si ferma”. È stata una sottovalutazione?

Sì, era una sottovalutazione.

Non fu l’unico, c’era chi diceva che era una influenza, ma crede di aver commesso qualche errore?

Ci abbiamo messo qualche giorno di troppo a capire, abbiamo sbagliato anche noi, anche io. Per alcuni giorni – eravamo già zona gialla – abbiamo pensato che si potesse tenere insieme la prudenza, il rispetto delle regole, le distanze di sicurezza, e la vita normale. Eravamo preoccupati per il virus, ma anche per le attività economiche delle nostre città, i negozi, gli studi, i bar, la vita stessa nei nostri concittadini. Ma quell’equilibrio non poteva reggere.

Ad esempio, c’era Bergamo in fiera, e il Comune propose la convenzione con l’agenzia dei trasporti locali, per una scontistica. Valanghe di persone sugli autobus…

No, no, erano chiusi i centri commerciali, ma aperti i negozi di vicinato, che disperatamente cercavano di salvare almeno un pezzetto del loro lavoro. Con ciò, non c’era folla nei negozi e tantomeno sugli autobus. Anzi.

Il regista Paolo Franchi ha pubblicato una suo foto al ristorante con sua moglie mentre invitava i bergamaschi ad andare avanti senza allarmismi. Tre giorni prima l’ospedale di Alzano Lombardo era in tilt.

È quello di cui parlavo. Il messaggio che accompagnava quella foto parlava di preoccupazione, ma anche di “andare avanti con intelligenza e buon senso, senza allarmismi”. Non abbiamo dato messaggi sciocchi, ma in quel momento stavamo certamente sottovalutando il pericolo. Gli stessi virologi del nostro Paese erano divisi sull’argomento Coronavirus, faccia lei.

Perché Bergamo è l’epicentro della pandemia?

Credo per quello che è accaduto tra Alzano Lombardo e Nembro, e per le scelte che non sono state fatte.

Il governo, proprio in queste ore, sta valutando una ulteriore stretta alle misure di contenimento. Lei è d’accordo?

Sì, assolutamente. Da almeno dieci giorni dico che bisogna chiudere tutte le attività non essenziali. Si salvaguardino le filiere strategiche - alimentare, sanità, energia - e si chiuda il resto. Che senso ha tenere aperta una fabbrica di bottoni o di giocattoli e vietare ai cittadini di fare jogging in campagna?

Magari non è il momento, ma non crede che a bocce ferme si dovrà indagare sulle responsabilità di ognuno?

Forse, alla fine. Anch’io ho qualche sasso nelle scarpe. Ma non adesso, adesso è invece fondamentale che le istituzioni si mostrino coese, che trasferiscano solidità e fiducia. E comunque il mio giudizio sulla risposta complessiva del Paese, delle sue istituzioni e dei suoi cittadini è largamente positivo. Non parliamo neppure di questa città e di questa provincia: i bergamaschi hanno fama di gente tosta, stavolta si stanno dimostrando dei marine.

Di cosa ha bisogno oggi Bergamo?

Di medici e di infermieri, di ventilatori polmonari, di dispositivi di protezione per evitare che gli operatori sanitari si ammalino. Domani serviranno anche forti aiuti economici, per rimettere in piedi questa terra in difficoltà, ma oggi le priorità sono tutte sanitarie.

Che appello vuole lanciare?

Chiedo aiuto alle altre regioni e agli altri Paesi che hanno avuto la fortuna di non trovarsi sulla linea di primo impatto di questo flagello. I bergamaschi sono andati ovunque, per qualunque alluvione o terremoto, in Italia e fuori, abbiamo sempre aiutato tutti. Adesso tocca a noi ricevere soccorso.