Lo Stato si riprende l’acciaio di Taranto. Dopo 25 anni dalla vendita della fabbrica ai Riva, lo Stato rientra nello stabilimento siderurgico più grande e più complesso d’Europa. Con la firma di oggi, infatti, attraverso Invitalia il ministero dell’Economia mette un piede nella gestione della fabbrica data in affitto dal 2018 alla multinazionale ArcelorMittal. Il primo, ma non l’ultimo. La firma di oggi, infatti, è l’avvio di un percorso che porterà lo Stato nel giro di due anni a diventare azionista di maggioranza della società AmInvestco.
Un percorso che prevede un significativo aumento di capitale a carico dello Stato: i primi 400 milioni di euro dovranno arrivare entro il prossimo febbraio e, secondo quanto ha annunciato Il Sole 24ore, altri 800 milioni saranno versasti entro il 2022 permettendo allo Stato di detenere il 60 percento delle quote societarie. L’accordo fra Mittal e Invitalia per il passaggio del controllo dello stabilimento di Taranto prevede “un articolato piano di investimenti ambientali e industriali”, si legge nella nota del Mef. “Sarà tra l’altro avviato il processo di decarbonizzazione dello stabilimento, con l’attivazione di un forno elettrico capace di produrre fino a 2,5 milioni di tonnellate l’anno”.

Ma se l’intervento dello Stato aveva innescato un moto di speranza nei tarantini, stanchi di decenni di veleni e di malattie, l’annuncio del nuovo accordo e il nuovo piano industriale hanno generato un nuovo conflitto non solo tra gestori della fabbrica e associazioni ambientaliste, ma anche tra istituzioni locali e Governo centrale. Se da un lato infatti l’accordo prevende di mantenere, una volta a regime, invariato il livello occupazionale con 10mila addetti di cui 8200 solo a Taranto, dall’altro non si sa cosa accadrà agli oltre 2000 operai che nel passaggio da Ilva in Amministrazione straordinaria ad Arcelor sono rimasti in carico alla prima con la promessa di reintegro in fabbrica entro il 2023. Un punto sul quale, è facilmente prevedibile, i sindacati daranno battaglia.

Non solo. Il nuovo piano industriale prevede nel 2025 di tornare a produrre ben 8 milioni di tonnellate di acciaio: la produzione sarà garantita dal rifacimento dell’Altoforno5 (fermo dal 2015 e che da solo potrebbe garantire ben 5milioni di tonnellate) e l’utilizzo dell’Altoforno 4 e, per la prima volta a Taranto, anche di un forno elettrico. E se l’ad di Invitalia Arcuri ha garantito che le emissioni saranno significativamente tagliate, nel capoluogo ionico c’è già aria di protesta. Solo pochi giorni fa, Alessandro Marescotti di Peacelink, aveva denunciato che nonostante la bassa produzione, la fabbrica inquinava di più: “Confrontando i dati Arpa 2019 (da gennaio a novembre) con i dati Arpa 2020 (da gennaio a novembre) emerge – ha spiegato Marescotti – che nel quartiere Tamburi nel 2020 ci sono stati i seguenti incrementi di inquinamento rispetto al 2019 in aria ambiente” specificando il benzene, sostanza cancerogena, era aumentata del 128 percento nel quartiere e del 215 percento nelle centraline intorno al perimetro della fabbrica.

Il nuovo accordo ha suscitato la reazione forte anche del sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, del presidente della Provincia Giovanni Gugliotti e di alcuni sindaci del territorio che hanno consegnato al prefetto Demetrio Martino le proprie fasce tricolori “in segno di protesta e denuncia per ciò che si sta compiendo”. Alle istituzioni locali non è andato giù il mancato coinvolgimento al tavolo dei negoziati. Melucci ha spiegato che “il Governo si appresta a firmare il sacrificio di altre generazioni di tarantini, senza che siano stati nemmeno resi pubblici i termini dell’intesa col privato” aggiungendo “per l’occasione, in memoria delle tante vittime del passato e col cuore rivolto a chi ancora in questi giorni si ammala e continuerà ad ammalarsi a causa dell’ex Ilva, i suddetti Enti locali porranno a mezz’asta le proprie insegne e listeranno a lutto uno dei monumenti simbolici della storia e delle aspirazioni della comunità ionica”. La nuova era dell’acciaio tarantino, quindi, comincia con le bandiere a mezza asta. E per una volta cittadini e istituzioni locali sembrano avere un’unica posizione. Almeno per il momento.

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