15 Mar 2024

USA-Israele: qualcosa si è rotto?  

Netanyahu approva un piano operativo per marciare su Rafah, mentre da Washington si moltiplicano i segnali di insoddisfazione per la gestione israeliana della crisi.

A cinque mesi dall’inizio della crisi in Medio Oriente, negli Stati Uniti qualcosa sembra essere cambiato nei confronti di Israele. Il premier Benjamin Netanyahu ha respinto oggi l’ultima proposta avanzata da Hamas per il rilascio degli ostaggi, annunciando però l’invio di delegati israeliani in Qatar per continuare a trattare la tregua. Al contempo, però, il primo ministro ha approvato anche un piano operativo delle Forze di difesa israeliane per avviare l’offensiva a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Operazione a cui gli Stati Uniti si oppongono fermamente e che va ad allungare l’elenco delle frizioni tra Tel Aviv e Washington. Giovedì, gli USA hanno imposto sanzioni contro due avamposti israeliani in Cisgiordania, con l’obiettivo di punire i responsabili della crescente ondata di violenza che sta costringendo molti palestinesi a fuggire dalle loro case. Nelle stesse ore, il leader della maggioranza al Senato statunitense, il democratico Chuck Schumer, criticava aspramente il governo Netanyahu, chiedendo apertamente che Israele abbia un nuovo esecutivo. Le dichiarazioni del leader Dem riflettono il cambiamento nel sentimento pubblico americano nei confronti del governo israeliano, specialmente all’interno del Partito democratico e della comunità ebraica americana. Vale la pena chiedersi, però, se a questi screzi tra Washington e Tel Aviv seguiranno veri e propri segni di rottura.

Decisione storica?

Le sanzioni comminate a due avamposti israeliani in Cisgiordania rappresentano la prima volta in assoluto che viene adottata una misura del genere. I provvedimenti sono stati emessi “a causa di atti di violenza contro i civili”, spiega la relativa nota ufficiale del dipartimento di Stato. I due soggetti sanzionati sono la Moshes Farm, anche nota come Tirza Valley Farm Outpost, e la Zvis Farm. Entrambi sono avamposti illegali secondo la legge israeliana, diversi dagli insediamenti in Cisgiordania che hanno invece l’autorizzazione del governo. La mossa degli Stati Uniti arriva in un contesto di crescenti tensioni tra l’amministrazione del presidente Joe Biden e il governo di Bibi Netanyahu, non solo per la continua violenza perpetrata dai coloni israeliani in Cisgiordania, ma anche per la crescente crisi umanitaria a Gaza, dove il bilancio delle vittime, aggiornato dal ministero della Sanità locale, supera ormai quota 31mila. Biden, che ha definito una “linea rossa” l’annunciata offensiva israeliana su Rafah, ha annunciato la scorsa settimana la creazione di un corridoio marittimo per la fornitura di aiuti all’enclave costiera palestinese, ma esponenti della sua stessa amministrazione ammettono che al momento “non esiste alcuna valida alternativa alle rotte terrestri” dall’Egitto e da Israele.

Per chi parla Schumer?

Le tensioni si moltiplicano anche sul fronte politico. Il sito d’informazione Axios sottolinea come il discorso del leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer, in cui auspicava un nuovo governo per Israele, ha provocato “un enorme shock nelle già tese relazioni USA-Israele”. Le parole del senatore assumono un peso ancora più rilevante se si considera che Schumer non è solo il più anziano funzionario ebreo eletto del Paese, ma anche uno dei più accaniti sostenitori di Israele nella storia recente del Partito democratico. “Il discorso di Schumer ha sbalordito funzionari e osservatori sia a Washington che a Gerusalemme”, sintetizza Barak Ravid. Basti pensare che Schumer è stato fra i pochissimi Dem a non schierarsi contro Netanyahu ai tempi del famoso discorso che quest’ultimo pronunciò nel 2015 al Congresso. In quell’occasione, il premier israeliano attaccò apertamente l’Accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), varato dall’amministrazione democratica di Barack Obama.

Verso un punto di rottura?

L’uscita caustica di Schumer è stata respinta al mittente dal partito di Netanyahu, il Likud. “Israele non è una repubblica delle banane, ma una democrazia indipendente e orgogliosa che ha eletto il primo ministro Netanyahu”, si legge in una nota. Si è trattato, in realtà, della seconda volta in una sola settimana che funzionari americani hanno commentato pubblicamente la debolezza politica di Netanyahu. Martedì, infatti, la valutazione annuale delle minacce dell’intelligence nazionale ha stabilito che la “vitalità” di Netanyahu come primo ministro potrebbe essere in pericolo, a causa del malcontento israeliano per la gestione della guerra. Ma le dichiarazioni di Schumer, in fin dei conti, potrebbero non essere troppo lontane dalla prospettiva dell’amministrazione stessa, anche se Biden ha cercato di limitare nelle ultime settimane quello che era diventato un vero e proprio scontro a distanza col premier israeliano. Vale la pena chiedersi, tuttavia, se all’ennesimo scontro verbale e politico seguiranno prima o poi gesti di rottura concreti, come l’interruzione della fornitura di armi a Israele o – prima volta – una presa di posizione sfavorevole a Tel Aviv in sede ONU. Specialmente se l’offensiva su Rafah, ultimo rifugio per 1,5 milioni di profughi, passerà dalle parole ai fatti.

Il commento

di Mario Del Pero, ISPI e Sciences Po

“Su Israele l’amministrazione Biden e il Partito Democratico si trovano in evidente difficoltà. Una parte forse maggioritaria del loro elettorato ritiene che si sia lasciata carta bianca a Israele e non si stia facendo abbastanza rispetto alla tragedia umanitaria a Gaza. Gli alleati arabi sollecitano un’azione finora assente. Le misure adottate – dagli aiuti umanitari alle sanzioni contro alcuni coloni – appaiono tardive e largamente insufficienti. Si alza quindi il tono della polemica pubblica con Netanyahu per cercare di placare un malumore che rischia di ridurre le possibilità di vittoria in novembre. E si cercano interlocutori più moderati e ragionevoli dentro il governo israeliano, nell’auspicio che si possa avviare una transizione post- Netanyahu ormai ritenuta inderogabile. Al contempo, si spera di ricomporre la prima vera frattura tra i democratici dell’era Biden e di evitare di aprire una fronda congressuale sul tema forse nodale: la continuazione degli aiuti militari a Israele”.

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications

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