Da street food ante-litteram a patrimonio dell’umanità, come una focaccia tonda ha conquistato il mondo

L’origine della pizza? Non è certa. Già ai tempi degli etruschi prima e dei romani poi si cuoceva nei focolari delle case una focaccia rotonda, su cui si disponevano le pietanze. Cosa che accadeva d’altronde in altri luoghi del Mediterraneo, come ricorda ancora oggi la forma del pane arabo, turco, della pita greca.
La prima volta che un documento scritto fa riferimento alla pizza è nel 997. Il Codex cajetanus di Gaeta è un documento notarile nel quale si stipulava la locazione di un mulino. “Dodici pizze, una spalla di maiale e un rognone” erano il pagamento dell’affitto, da far arrivare ai padroni a Natale.
Il nome torna poi in altri documenti in Italia, ed è definitivamente legato alla città di Napoli in uno scritto del 1535 del poeta e saggista Benedetto Di Falco che spiega come “la focaccia in napoletano” sia “detta pizza”.
Si trattava allora di un cibo popolare, venduto nelle strade della città dagli ambulanti, condito con strutto, sale grosso e aglio – nella sua versione più povera – con caciocavallo e basilico, e in alcuni casi piccoli pesci nella sua versione più abbondante e costosa.

A mancare da questa descrizione è l’ingrediente che ha reso la pizza il piatto che conosciamo oggi. Il pomodoro è arrivato in Europa infatti soltanto dopo il 1492, l’anno della scoperta dell’America. La prima menzione del pomodoro sulla pizza è della metà del XVIII secolo, quando Vincenzo Corrado, cuoco, filosofo e letterato, scrisse un trattato sulle abitudini alimentari di Napoli, in cui raccontò come la salsa di pomodoro era utilizzata per il condimento di pizze e maccheroni.
Erano gli anni in cui la pizza era opera di fornai e non di pizzaioli, in cui rappresentava quello che oggi chiameremmo uno “street food”, da mangiare ripiegata su se stessa, da acquistare da garzoni in bicicletta che portavano in equilibrio sulle loro teste le “stufe” in cui le pizze da vendere a domicilio restavano calde.
Dalla strada alla pizzeria si passò quando la pizza diventò un piatto che, da popolare e povero, iniziò a stuzzicare l’interesse di borghesia e aristocrazia attorno agli anni Trenta del 1800.
Ed è del 1889 la visita del re d’Italia Umberto I e della regina Margherita della città partenopea. Durante una passeggiata, come leggenda vuole, la coppia reale fu accolta dal miglior pizzaiolo dell’epoca, Raffaele Esposito, che offrì tre tipi di pizza: la tradizionale Mastunicola (strutto, formaggio, basilico), la classica Marinara (pomodoro, aglio, olio, origano) e una pizza condita con pomodoro, mozzarella, e basilico, a ricordare i colori della bandiera nazionale. Pare che la regina ne fu talmente colpita da scrivere una lettera di suo pugno al pizzaiolo per ringraziarlo. Per ricambiare, Esposito battezzò la pizza tricolore Margherita.

Ma c’è uno scritto del 1858 che toglie un po’ di magia alla leggenda: in Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, l’editore e letterato Francesco de Bourcard accenna infatti a una ricetta che ricorda molto quella della Margherita.
La pizza è finita perfino nelle pagine di Alexandre Dumas (padre), ne Il Corricolo, una serie di racconti su Napoli del 1843. Attraverso la descrizione della pizza, lo scrittore francese offre una breve analisi socio-economica della città: “La pizza è: All’olio; Al lardo; Alla sugna; Al formaggio; Al pomodoro; Ai pesciolini. È il termometro gastronomico del mercato: aumenta o diminuisce il prezzo secondo il corso degli ingredienti suddetti, secondo l’abbondanza o la carestia dell’annata”.

Dalla passeggiata della regina Margherita in poi, la storia della pizza napoletana è quella di una veloce diffusione, al di fuori dei confini della città di Napoli, nel mondo. Attraverso un paradosso: il fenomeno culturale che rappresenta l’Italia e la sua cucina è arrivato, con l’immigrazione dal Meridione, prima in America che nel nord Italia, dove si è diffuso soltanto dopo la Seconda guerra mondiale, grazie ai lavoratori del sud.
La pizza resta uno dei piatti più consumati in Italia e nel mondo, e l’arte dei pizzaioli napoletani è stata riconosciuta nel 2017 come patrimonio dell’umanità dall’Unesco.

Al salone “Tuttopizza” di Napoli del 2018, la Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa ha svelato i numeri – straordinari – di produzione e vendita nazionale della pizza: otto milioni quelle prodotte ogni giorno in Italia, quasi tre miliardi in un anno.
Le pizze più consumate dagli italiani, secondo un’indagine Doxa commissionata nel 2014 da AssoBirra, sono Margherita, Diavola (salame piccante), Napoli, Capricciosa, Prosciutto e Funghi.