di Elena Dusi

Ci sono virus stupidi e virus intelligenti. I primi, come Ebola, uccidono rapidamente i loro ospiti. I secondi li colpiscono con sintomi lievi. Fanno sì che continuino a viaggiare, lavorare e andare in vacanza, nonostante un po’ di brividi e naso chiuso. Che tornino a casa la sera in famiglia, non disdicano quella cena con gli amici prenotata tempo fa o si lancino nell’impresa sportiva per cui si erano tanto allenati. Si estendono nel mondo intero fino a raggiungere il livello di pandemia, dichiarato ufficialmente dall’Organizzazione Mondiale della Salute l’11 marzo. “La parola sembra suggerire che non possiamo fare più nulla per contenere il virus” ha spiegato il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus. “Questo non è vero. Siamo impegnati in una lotta che può essere vinta, se facciamo le cose giuste”.

Veloce e furbo
Il coronavirus che abbiamo di fronte è un nemico particolarmente intelligente. L’80% dei contagiati ha sintomi blandi. Che sarà mai, ci dicevamo un mese fa – ma sembra che sia passata una vita - non uccide certo come gli altri coronavirus di Sars e Mers. Perché preoccuparsi tanto, è un’influenza o poco più. E lui intanto, non visto dai radar, viaggiava, a bordo di individui insospettabili, con sintomi solo incipienti o del tutto irrilevanti. E andando veloce, ovviava alla letalità piuttosto bassa (3% contro il 10% della Sars e il 34% della Mers). Fino a triturare, con la sua costanza, i record di contagi e di vittime dei ben più cattivi coronavirus fratelli.

Un territorio sconosciuto
“Ci muoviamo in un territorio senza mappe” aveva avvertito Ghebreyesus. A tre mesi dalla scoperta dell’epidemia non abbiamo cure, non capiamo esattamente chi sia contagioso, perché i bambini abbiano sintomi molto più lievi degli adulti e perché le donne se la cavino meglio degli uomini, né sappiamo quanto sia fondata la speranza che il virus sia stagionale e si eclissi con l’arrivo della primavera. “Siamo di fronte alla minaccia numero uno per il mondo” aveva detto il direttore dell’Oms. “Un virus può avere effetti più potenti di qualunque attacco terroristico”. Era l’11 febbraio e ci sembrava un’esagerazione. Un mese più tardi, tappati in casa o nelle mascherine, attenti a guardarci intorno e cambiare marciapiede, ci accorgiamo di quanto avesse ragione. Dal lato opposto, fa notare Benedetta Allegranzi, direttrice mondiale del servizio di prevenzione delle epidemie dell’Oms, “le epidemie possono farci superare l’individualismo e riscoprire che siamo un insieme e abbiamo delle responsabilità collettive”. E’ molto improbabile che il coronavirus faccia male a noi direttamente. E assai più facile che le nostre imprudenze abbiano effetti che ricadono sulle spalle di altri: malati più fragili o personale del sistema sanitario.

La punta dell’iceberg
Secondo un’analisi dell’Imperial College, due malati su tre non vengono individuati. Guariscono senza bisogno di cure e non verranno mai inclusi nelle statistiche. Il 13 febbraio la Cina, sopraffatta dall’onda di contagi, smise di contare i malati attraverso tampone e analisi del genoma del virus e inserì nelle statistiche semplicemente chi aveva sintomi ai polmoni. Anche l’Italia – in particolare la Lombardia – sta faticando a testare tutte le persone che presentano disturbi. Il lavoro che normalmente viene svolto quando un nuovo virus si presenta (intervistare tutti gli infetti, indagare gli spostamenti e tracciare i contatti) già dopo pochi giorni si è rivelato un compito improbo. La mappa che normalmente, nella disciplina chiamata “epidemiologia da campo”, ricostruisce chi ha infettato chi, nel Nord del paese è diventata una giungla inestricabile. Il fatto che l’Italia abbia un tasso di letalità (il rapporto fra morti e contagiati) doppio rispetto alla Cina (oltre 5 rispetto a 2,5) può essere spiegato con la nostra età media (44 anni contro i 37 della Cina) e con il fatto che, come a Wuhan, non sempre siamo riusciti a identificare i malati.

L’epidemia dei giorni di festa
L’epidemia ha preoccupato fin dall’inizio le autorità di Wuhan. Il 30 dicembre è stato lanciato l’allarme all’Organizzazione Mondiale per la Sanità. Ma le misure di prevenzione sono state prese a rilento. Wuhan ha aspettato il 23-24 gennaio per imporre un cordone sanitario. La decisione è entrata in vigore 8 ore dopo l’annuncio, dando modo a chi non gradiva la reclusione di cambiare città. Né è stato cancellato il banchetto da guinness per 10 mila famiglie, il 7 febbraio, per festeggiare il capodanno. Solo a feste concluse è stato vietato di vendere selvaggina viva. Da allora – a dimostrazione delle dimensioni di questo mercato – le autorità hanno chiuso 20 mila allevamenti di porcospini, cinghiali, civette delle palme, pavoni. In vendita c’erano anche coccodrilli, serpenti, tigri, pangolini e, come sappiamo, pipistrelli. L’animale da cui, con tutta probabilità, è arrivato il coronavirus che sta provocando la pandemia di oggi.

Le lezioni disattese
Non sempre, possiamo dire oggi, siamo stati all’altezza dell’intelligenza del virus. “Oltre che per la diffusione e la severità della malattia, siamo preoccupati per l’allarmante livello di inazione di alcuni paesi” è l’accusa lanciata da Ghebreyesus nel dichiarare lo stato di pandemia. L’onda montante del virus si è diffusa dalla Cina alla Corea del Sud, l’Iran e l’Italia. Da lì, semplicemente spostata di poche settimane, la curva dei contagi si è impennata anche in Francia, Germania e Stati Uniti. Aumento esponenziale: concetto riassunto da una leggenda. Un re volle premiare il suddito che aveva inventato il gioco degli scacchi, passatempo assai gradito al sovrano. Il suddito chiese un solo chicco di grano, purché raddoppiasse di numero a ogni casella. Al re sembrò una richiesta modesta. Alla fine non bastò tutto il raccolto del regno.

Il tallone d’Achille del virus
La partita, per noi umani, non è certo persa. È vero che non abbiamo medicine per prevenire o curare Covid-19, la malattia da coronavirus. Ma per quanto furbo, anche il microrganismo ha i suoi punti deboli. Si trasmette con le goccioline di tosse e starnuti, ma solo con quelle più grandi, sopra ai 5 micron, incapaci di allontanarsi più di 1,5-2 metri dalla persona contagiosa e di persistere nell’aria oltre pochi secondi. Si è calcolato che ogni persona ammalata ne infetti altre 2,5-3, mentre il morbillo può arrivare a 15, grazie alla sua capacità di cavalcare le goccioline dal respiro più piccole di 5 micron, di restare sospeso nell’aria e di viaggiare con le correnti, allontanandosi anche di parecchi metri. A Wuhan e nelle zone rosse di Lodi la misura del “distanziamento sociale” ha funzionato. Il sacrificio dell’isolamento di alcune settimane è servito a spegnere il focolaio.

Ossigeno per guarire
Il punto di forza del coronavirus – colpire l’ospite nell’80% dei casi con sintomi lievi – è anche la sua debolezza. Solo il 5% dei contagiati sviluppa una polmonite seria. In assenza di altre malattie, al netto di complicanze, anche i malati gravi hanno buone chance di guarigione, se aiutati con l’ossigeno, il ricovero in terapia intensiva e una buona assistenza. Alla fine, con l’aumentare dei contagiati e dei guariti, l’umanità svilupperà la cosiddetta “immunità di gregge” che impedirà al virus di trovare nuove persone da contagiare. Le caselle della scacchiera, per quanto numerose, non sono infinite. Il prezzo che pagheremo dipende molto dal sistema sanitario di un paese e dalla sua capacità di reggere il peso di un gran numero di contagi. L’Italia, paese anziano reduce dal taglio miope di 40 mila medici negli ultimi 6-7 anni, sta pagando un prezzo alto. Gli operatori sanitari rimasti sul fronte hanno sulle loro spalle un peso improbo. La lezione (e la paura) dovrebbero – speriamo - servirci per il futuro.

I bambini si salveranno
Il coronavirus ha la caratteristica piuttosto misteriosa di risparmiare i bambini, o di colpirli in modo lieve. Solo l’1% dei contagiati ha meno di 10 anni. La prima volta che si parlò di contagio asintomatico, a gennaio, fu proprio a proposito di un ragazzino di 10 anni di Shenzhen, rimasto sano in una famiglia tempestata dai contagi dopo la visita a un parente all’ospedale di Wuhan. I genitori, preoccupati, vollero che fosse sottoposto al test nonostante la sua buona salute. E lui in effetti è risultato positivo, come una sorta di portatore sano, a confortarci che in uno scenario totalmente da fantascienza in cui il coronavirus ci sterminasse tutti, resterebbero i bambini a popolare un mondo nuovo.

In attesa del vaccino
Nel lungo periodo – le stime variano da uno a tre anni – dovremmo mettere a punto un vaccino. Forse ci salverà dal ticchettio di morti e contagi. O forse farà la fine del vaccino della Sars, riposto su uno scaffale per mancanza di malati. Il virus, dopo aver spadroneggiato nel mondo per più di un anno, se ne andò come era venuto. Lasciando ferite e paura. Ma non abbastanza da indurci a prevenire oggi la nuova epidemia. E qui sta forse il nostro limite, nella gara di intelligenza senza tempo fra uomini e virus.