31 gennaio 2020 - 07:35

Coronavirus Italia: erano atterrati a Malpensa i due turisti cinesi ricoverati a Roma

Sbarcata il 23 gennaio la coppia di Wuhan, marito e moglie di 66 e 67 anni, ricoverata da giovedì sera all’ospedale Spallanzani di Roma. L’assessore Gallera: «Non avevano visitato Milano, nessun allarme». Ma intanto Chinatown si svuota. Semideserti i ristoranti

di Stefano Landi

Coronavirus Italia: erano atterrati a Malpensa i due turisti cinesi ricoverati a Roma
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Marito e moglie, 66 e 67 anni, originari della provincia di Wuhan. I due turisti cinesi ricoverati giovedì sera all’ospedale Spallanzani di Roma erano atterrati a Malpensa il 23 gennaio (prima che venissero attivati i controlli sanitari sugli aerei, da domenica 26) e avevano proseguito con la loro comitiva il viaggio in Italia, direzione Roma, appunto. È la prima traccia del virus, anche se indiretta, in Lombardia. Venerdì mattina l’assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera ha precisato che la coppia non si è fermata a visitare Milano, e che i controlli a Malpensa sono gestiti direttamente dal ministero. La coppia di cinesi, a quanto si apprende, si sarebbe diretta a Verona, per poi visitare Parma e Roma.

Le analisi di giovedì su un altro caso sospetto di Coronavirus, al San Gerardo di Monza, hanno dato esisto negativo: solo paura per l’uomo, un 40enne appena rientrato dalla Cina, che mercoledì si era presentato al pronto soccorso ed era stato ricoverato in isolamento.

«Non c’è allarme in Lombardia», ha ribadito giovedì a tarda sera l’assessore regionale alla Sanità Giulio Gallera, dopo la lettera inviata dall’Agenzia tutela della salute di Milano ai presidi delle scuole, in cui si dice che «l’attività didattica può continuare regolarmente». Venerdì a mezzogiorno pranzo scaccia-paura a Chinatown con l’assessore Tajani e i delegati Confcommercio. Sabato e domenica alcuni commercianti cinesi allestiranno uno stand, all’angolo tra via Paolo Sarpi e via Niccolini, per vendere abiti devolvere il ricavato alle famiglie delle vittime in Cina.

Ci sono cinque ragazzi seduti davanti a polli al limone e chili con carne. Lavorano da Microsoft, quindi con le finestre che affacciano sulla Chinatown meneghina. Almeno una volta a settimana fanno qui la loro pausa pranzo. Un rito che non tradiscono nemmeno oggi, nonostante intorno il vento della paura abbia spazzato via la gente dai ristoranti cinesi della città. «Non abbiamo timori, ma abbiamo parlato solo di quello», raccontano mentre ancora non si è diffusa la notizia che i turisti contagiati dal virus (ricoverati a Roma) erano passati anche in città. I tavoli intorno sono tutti apparecchiati. Ma Fan Zhang, 35 anni, sa che anche oggi il suo Chateau Dufan resterà semi deserto. «A inizio gennaio mi hanno rubato la borsa con dentro quattro giorni di incasso. Ora tutto questo. Ho messo il braccialetto anti-sfortuna ma direi che non basta. L’anno del topo è iniziato nel peggiore dei modi». Intanto i numeri: «Di solito a pranzo faccio due giri. Un centinaio di coperti, mercoledì erano 40, oggi se va bene arriviamo a 25», racconta. Giovane imprenditore, è partito da una gelateria, all’angolo tra Sarpi e piazzale Baiamonti. Due anni e mezzo fa si è allargato e ora gestisce un ristorante frequentato per il 95 per cento da italiani. Quindi oggi è semivuoto. «Non penso che l’Italia sia un Paese razzista, ma c’è tanta gente che di noi pensa male a priori. Che probabilmente è contenta a vederci in difficoltà. C’è chi cancella le prenotazioni o non passa nemmeno qui davanti», dice Fan.

Sul telefono scorre le tante chat che frequenta da cinese trapiantato in Italia. Quelle che in questi giorni raccontano un crescendo di episodi di discriminazione e razzismo. «Ho due figlie, una iscritta alle elementare, l’altra alle medie. Il clima non è buono», aggiunge entrando in cucina. Chateau Dufan è uno dei tanti posti della nuova Paolo Sarpi mecca gourmet. Dove il livello della cucina cresce insieme al palato e al volume dei clienti. «Le materie prime che usiamo le prendiamo quasi tutte a Milano: al mercato del pesce, alla macelleria di via Farini. Anche le verdure arrivano da vicino. Dalla Cina importiamo solo salse confezionate, soia, vino di riso che si usa per preparare alcuni piatti. La nostra cucina tradizionale è cotta. Quindi senza nessun rischio a prescindere dal Coronavirus. Io preparo anche delle tartare, ma il pesce viene abbattuto. La legge italiana è molto severa in questo senso».

Eppure la paura ha convinto molta gente che anche mangiare un involtino primavera in un ristorante cinese possa essere una roulette russa. «In questi giorni difficili ci stiamo confrontando con i colleghi della zona. Anche gli amici che fanno sushi take-away hanno subito un crollo. La cosa che ci sorprende di più è come possa la gente pensare che ci convenga importare carne a costi più alti. Sarebbe totalmente privo di senso». Bar e ristoranti intorno sono mediamente vuoti. Ci sono i turisti, ma pochissimi italiani. Per l’economia locale è una brutta botta. «La cosa che ci preoccupa di più in questo momento è raccogliere e mandare aiuti in patria. Là la situazione è drammatica».

Da Chateau Dufan lavorano 22 persone: in un angolo c’è un cameriere italiano con l’aria rassegnata. Con lui lavora un mix di filippini, marocchini, pachistani, ovviamente cinesi. «Non posso mandarli a casa, aspettiamo che si torni alla normalità. Ma sappiamo bene che per almeno un mese sarà un inferno. Il presente è un punto di domanda», continua Fan. E tutto il sommato anche il futuro. Serve prenderla con buone dosi di filosofia. Passa un’altra ristoratrice che lavora qualche metro più avanti. Le chiedi se non è il caso di creare un fronte di comunicazione comune. Dice che ha paura che a spiegare troppo la gente pensi (e si crogioli) ancora di più nelle sue paure. L’ultima diffusa è quella che ci siano cinesi malati che non si fanno curare. «Guardate che anche noi abbiamo paura di morire: se qualcuno avesse solo un dubbio non starebbe certo chiuso in casa», dice Fan.

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